La Psicologia sociale secondo Freud.
Cent'anni dopo.
Il saggio “Psicologia dei collettivi e analisi dell’Io” non ha avuto l’influsso che meritava nella cultura più vasta perché la ripresa della psicoanalisi in chiave politica in questo ultimo secolo è stata dominata dal freudo-marxismo. E, come apparirà chiaro, questo testo di Freud non fa gioco al freudo-marxismo.
Freud qui sembra riprendere un tema che già intrigava gli Antichi: se la razionalità degli individui presi singolarmente è migliore della razionalità delle Massen, dei gruppi o collettivi, o è vero il contrario. La teoria secondo cui ogni individuo, razionale se preso da solo, perde il lume della ragione quando è parte di un collettivo, si è sempre contrapposta alla teoria secondo cui un collettivo è capace di una razionalità superiore rispetto a quella di ogni singolo.
Il massimo esponente di questa seconda tesi è Hegel, per il quale lo Spirito Oggettivo (Objektive Geist), lo “spirito nella congregazione”, esprime una Ragione superiore a quella di ciascun soggetto, spesso manipolato dall’Astuzia della Ragione. Quanto alla prima tesi – che si esprime in un profondo disprezzo aristocratico per “le folle” – uno degli esponenti più noti è Gustave Le Bon, a cui Freud si rifà. Ma Freud devia profondamente rispetto a questa antica contrapposizione.
Freud cerca di render conto di qualsiasi collettivo – dalla folla improvvisata per assaltare una panetteria, fino a folle altamente strutturate come la chiesa e l’esercito – a partire da Eros, ovvero dalle pulsioni. Questo testo viene concepito e scritto assieme ad Al di là del principio di piacere, e va visto come una prima applicazione di quel saggio. Ovvero, un collettivo è prodotto di Eros, della spinta che punta a legare gli individui tra loro. Quando un collettivo si disgrega, subentra Thanatos, gli individui si slegano.
Ora, il punto essenziale in Freud è che questo legame erotico avviene sempre grazie a un leader, a un Führer. All’epoca il termine Führer non aveva le eco sinistre che ha ormai per noi, ma, di fatto, après-coup, col senno di poi, possiamo dire che di fatto Freud descrive qualsiasi collettivo come fascista. Perché ogni collettivo si regge su un processo grazie a cui un oggetto esterno – il Führer – prende il posto dell’Ideale dell’Io. Ogni collettivo si basa su un’alienazione condivisa: quel che ci affratella è amare lo stesso leader. Insomma, non esistono collettivi anarchici: una banda di anarchici deve avere un Führer per poter funzionare anche come banda.
Ovviamente all’epoca Freud non poteva parlare di fascismo dato che nel 1921 non si era ancora affermato. Ma se si legge correttamente lo schema dell’alienazione di gruppo che Freud descrive, si converrà che è, in fondo, una descrizione precisa di quello che chiamiamo fascismo:
L’oggetto esterno è la persona che diventerà Führer nella misura in cui si sostituisce a un oggetto idealizzato, ovvero, paradossalmente, il collettivo per Freud si costruisce sempre in modo narcisistico. Il narcisismo è proprio la sostituzione dell’amore oggettuale con qualcosa di idealizzato, che è prima di tutto, per Freud, idealizzazione di sé. E non a caso Freud oppone al collettivo, come sua minaccia e limite, la coppia amorosa: questa non è narcisistica. Ovvero, se la coppia amorosa – Paolo e Francesca, Giulietta e Romeo – è l’epitome di Eros, la coppia erotica è minaccia mortale per la Masse, per il collettivo. La coppia è sempre centrifuga rispetto all’Eros della Masse: paradossalmente, l’Eros sessuale tende a distruggere il legame erotico di un collettivo. La sessualità, per Freud, è de-socializzante. Non a caso, del resto, tutte le società che puntano su un legame sociale fortissimo – regimi teocratici, comunismo – finiscono sempre con lo svalutare i legami amorosi di coppia.
All’inverso, Freud descrive l’ipnosi – che lui stesso aveva praticato per anni – come una folla a due. Il che, semplicemente, significa che per Freud ogni collettivo è ipnotico. “Un gruppo è un sogno” diceva Jean-Bertrand Pontalis. Ma, a differenza dei suoi predecessori, a Freud non interessa se un gruppo è sonno della ragione o meno, gli interessa dire che i gruppi sono ipnosi, e nell’ipnosi c’è sempre uno che comanda, l’ipnotizzatore. In questo modo, Freud innova rispetto a una tradizione precedente, che basava i collettivi sull’imitazione reciproca tra i suoi membri. Non è l’imitazione reciproca l’essenziale (a differenza dell’isteria), i collettivi non sono isterici, sono fascisti: sono sempre ipnotizzati da un Führer.
Si obietterà che non è sempre vero. Se milioni di esseri umani hanno seguito Stalin o Mao, si dirà, è perché Stalin e Mao a loro volta incarnavano un ideale, il comunismo. Non basta che qualcuno si ponga come Führer, occorre che questo qualcuno si rifaccia a un ideale condiviso. Ma il punto è questo: ci sono molte persone che credono nel comunismo, ma se ne restano a casa, non partecipano a partiti, a sindacati, non fanno “gruppo”. Perché un ideale trascini una folla, perché si uccida e ci si faccia uccidere per un ideale, occorre un Führer. La politica, per Freud, sfrutta sempre, fino in fondo, l’identificazione narcisistica di ciascuno al capo.
Evidentemente una tale immagine del collettivo non poteva essere accettata dal freudo-marxismo, da Fromm a Žižek, da Wilhelm Reich a Badiou, da Marcuse ad Althusser. Il marxismo ha una matrice hegeliana, crede insomma in una Ragione collettiva che non si risolve in fascismo. Da qui una certa imbarazzata emarginazione di questo testo dal Canone freudiano ufficiale.
Notiamo che Freud stesso fu il Führer di un collettivo, quello psicoanalitico. E ben sappiamo, ahimè, quanto ci sia stato di fascista nella storia della psicoanalisi come istituzione: espulsioni, intolleranze, guerre di successione, lotte per l’eredità intellettuale.
C’è però qualcosa che manca nella teoria di Freud. E non è stato nemmeno aggiunta da W.R. Bion, autore di una teoria dei gruppi che articola e arricchisce quella di Freud.
Freud nel collettivo vede solo i processi di idealizzazione, l’alienazione idealizzante. Se avesse conosciuto Carl Schmitt, per esempio, avrebbe visto però che un collettivo si basa sempre sulla differenza tra amico e nemico. Per Freud – che pure parlava di esercito – il collettivo non ha bisogno di un nemico. Ovvero, non deve per forza eleggere un nemico. In realtà qualsiasi collettivo si basa sempre su una differenza, che può divenire ostilità e guerra, tra un noi e un loro. Non importa chi sia noi, e chi sia loro.
- Klein aveva parlato di scissione dell’oggetto in buono e cattivo. Possiamo dire che quando l’Oggetto esterno si sostituisce all’Oggetto di ciascuno, la sua idealizzazione scinde questo Oggetto, nel senso che una parte di esso si identifica all’Ideale dell’Io, mentre un’altra parte prende un’altra via, quella della deiezione, e viene come rigettata nel reale.
Oltre al processo di idealizzazione, dobbiamo quindi vedere il suo risvolto, la sua piega sinistra, a cui la psicoanalisi non ha dato un nome, e che chiamerei svilimento, l’inverso dell’idealizzazione. Ogni auto-idealizzazione collettiva produce un oggetto-scarto, un rigetto, un’espulsione (che secondo Freud è la matrice del reale stesso, “Die Verneinung”), qualcosa che Lacan ha cercato di dire, credo, con il concetto di oggetto a. Perché a è certo uno scarto, diciamo “la merda”, ma è anche, o può diventare anche, oggetto prezioso, brillante, agalma, come vedremo. Per cui propongo di completare lo schema freudiano in questo modo:
Freud aveva detto, in “Lutto e melanconia”, che nella malinconia l’ombra dell’oggetto cade sull’io (egli intende che l’ombra di un oggetto odiato cade sull’io, per cui l’io stesso diventa odioso). In ogni collettivo, nella misura in cui è un collettivo di noi-contro, l’idealizzazione getta come sua ombra un oggetto-scarto nello spazio rovesciato dell’idealizzazione. L’altro come oggetto-scarto turberà sempre i sonni dei collettivi anche più tolleranti.
E in effetti anche quando una società è molto tollerante e aperta – ad esempio, la società norvegese di oggi – produce (o trova?) il suo Anders Breivik, il terrorista che nel 2011 uccise 77 persone in Norvegia. Una società tollerante troverà sempre un’intolleranza da dover reprimere. L’intolleranza terroristica, oggi, è l’ombra che “sporca” l’immagine idealizzata che le società europee si danno di sé stesse, come aperte e tolleranti. L’intolleranza finisce sempre col produrre l’intolleranza dei tolleranti.
Ma questo oggetto-scarto molto spesso slitta in un processo contrario allo svilimento, che chiamerei “rivalutazione”. In questo modo l’oggetto-scarto, come l’oggetto a lacaniano, risale in quella posizione da cui si candida come Führer. È un processo misterioso, che però trova migliaia di riscontri, in particolare nella storia delle religioni. Mi limiterò al caso a noi più vicino, a Gesù.
Non a caso la croce resta il simbolo princeps della fede cristiana. La croce è un atroce supplizio, che i romani infliggevano per lo più agli schiavi, e che subì Gesù, il più reietto dei reietti. Abbandonato dai suoi discepoli e dal popolo, Gesù scende fino alla condizione più bassa allora concepibile: quella κενωσις che il cristianesimo valorizza. Ma proprio questa assoluta abiezione ne fa, agli occhi dei suoi apostoli e fedeli, il Cristo, il Messia. Addirittura, equivalente a Dio stesso. Possiamo ritrovare questo processo di rivalutazione, spesso iperbolica, dell’oggetto-scarto in quasi tutte le formazioni dei Grandi Collettivi, non solo delle religioni. L’oggetto-scarto, da nemico che era, diventa addirittura il Führer del nuovo Collettivo, là dove sorge il sol dell’avvenir.
Si dirà che ci sono società assolutamente benevole e tolleranti, come certi ordini religiosi, i francescani ad esempio. Ma proprio la storia di Francesco d’Assisi – cilici, macerazioni della carne, ricerca scabrosa della mortificazione anche morale – ci mostra che questa estrema tolleranza verso gli esterni deve pagare il prezzo di una grande intolleranza verso sé stessi, che prende il posto dell’oggetto-scarto. Ma talvolta anche il masochismo francescano si estroflette. Così il francescano Bernardino da Feltre, nel XV° secolo, divenne di fatto un sanguinario persecutore degli ebrei, accusandoli anche di immaginari infanticidi.
Qualcuno potrebbe dire che sistemi di caste rigidi, come quello che ancora prevale in India, non permettono questo “recupero”. Gli Intoccabili, i Dalit (oppressi), sono impuri per le caste superiori, e perciò a loro è assegnato il compito di ripulire gli escrementi. Ma è impensabile che un Dalit possa diventare un Führer. Eppure Gandhi, che pure apparteneva alle caste superiori, e che ha sostenuto il sistema delle caste, si è posto come Führer dell’India proprio vestendosi, o meglio svestendosi, da contadino indiano, anzi da fachiro. Ha dovuto mascherarsi da oggetto-scarto per assumere quella posizione mitica che ha non solo in India.
In questo modo si disegna quello che chiamerei il Samsara dell’alienazione politica degli esseri umani, il circolo che non ha mai veramente fine, tra processi di idealizzazione e processi di svilimento.
Completando così il grafico freudiano, potremmo ritrovare una circolarità che rende conto della dinamica storica, quella che porta da una parte alle identificazioni collettive (“noi”) e dall’altra alla lotta conflittuale con l’altro come scarto (“loro”).