Nostalgia del Padre

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Vatersehnsucht: Freud designa così[i] la relazione primaria – originaria, arcaica in senso proprio – che ogni costituzione di identità (di un individuo, di un io) implica necessariamente.  In ordine a questa nostalgia irrappresentabile, conosciamo solo dei sostituti: Ideale dell’io, Dio, Capo, e anche “padre” in tutti i sensi della parola.

Ora Freud sa, come noi tutti, che la nostalgia è tesa verso un inaccessibile, o addirittura un impossibile.  La parola italiana (greca in realtà) evoca il dolore di non poter tornare.  La parola tedesca si riferisce a una tensione ossessiva destinata a rimanere tale.  Questa espressione dice tutto: il Padre non ha avuto luogo.  Non ha luogo a essere anche se il suo ruolo o la sua figura sono necessari.  Anche se Freud non lo enuncia mai in questi termini, è spesso assai vicino a suggerirlo.  Se il Padre non esiste, qualsiasi costituzione di una folla organizzata secondo una gerarchia nel senso forte della parola (nel senso di una sacralità arcaica) poggia su una sostituzione fattizia.  Per principio, la società si organizza intorno a una surrogazione[ii] del suo principio.  Questo si può esprimere anche così: la società è an-archica in maniera essenziale[iii].

Se la società è anarchica e se, insomma, la dispersione o la dissociazione sono sempre in agguato o la assillano, bisogna chiedersi allora come la minima associazione sia possibile.  Freud ha affrontato questo problema in Totem e tabù, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Il disagio della civiltà, Mosè e il monoteismo e in altri testi in maniera più occasionale.  È stata una delle sue principali preoccupazioni dal 1921 (data del secondo di questi libri).

Nel titolo Psicologia delle masse e analisi dell’Io, bisogna fare attenzione alla congiunzione della coordinazione.  Non annuncia una semplice coordinazione ma una vera e propria implicazione reciproca.  La questione delle masse deve passare per quella dell’io, che da parte sua non è dissociabile dalla prima.  Bisogna, inoltre, avvertirvi un chiasmo: ci si aspetterebbe la psicologia piuttosto riguardo all’Io, mentre a proposito delle masse può apparire una sfida.  Quanto all’analisi dell’Io – cioè la sua psicoanalisi – essa dovrà tener conto della massa.  Come ognuno dei due termini è implicato dall’altro, è la posta in gioco del libro.  Non si tratta di nient’altro che di esaminare come la massa e l’io, che a prima vista si oppongono o addirittura si escludono a vicenda, al contrario si accordano o addirittura si includono.

La nostalgia del Padre – la sua inanità come la sua tenacia – sarà alla fine ciò che comanda questo doppio e interminabile movimento, di cui la Madre, d’altra parte, apparirà come lo spazio in cui si svolge.

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La massa[iv] (o le masse), come Freud la prende da Le Bon, in questi si distingue dalla “razza” o dal “popolo”.  Quest’ultimo procede dall’ereditarietà e da un’eredità; si manifesta in una civiltà o in una cultura, quindi con i costumi, con le tradizioni, etc.  La folla o la massa, al contrario, è un raggruppamento non ereditario, ma suscitato da una situazione o da un’organizzazione distinta dal “popolo”, anche se si trova al suo interno (come l’esercito o la Chiesa).  La massa non ha propriamente un’origine, si forma in maniera spontanea o arbitraria, ma non è “indigena” nel senso originario della parola.

Questa distinzione comporta il problema di come si formi un gruppo senza eredità né identità date? In altre parole, come si forma il primo gruppo umano? Freud sarà portato in seguito a studiare le società totemiche perché vi troverà i segni della formazione di un popolo a partire da quello che avrà stabilito come rapporto primo con un’origine nascosta.  Un totem è sempre un antenato: designa o rappresenta l’antenato.  Una massa non sa o non può designare né rappresentare il suo progenitore.

Oppure, e più precisamente, una massa è quella la cui formazione è contemporanea o co-originaria alla figurazione stessa di un’origine ancestrale.  È verso questa co-originarietà che Freud progredisce nella Massenpsychologie.

Così facendo, affronta la questione della formazione degli individui che compongono la massa.  Più precisamente, si tratta di capire come possono “comporre”, accordarsi, tra di loro.  Freud non smette di lottare con la difficoltà di questa composizione.  Considerata dal punto di vista dell’individuo o del sé, è da escludere se il sé è caratterizzato dalla sua autosufficienza.  Considerata dal punto di vista della massa, è opaca se la massa coagula in qualche modo delle unità senza tratti distintivi.  La massa infatti mette in evidenza ogni specie di cancellazione delle autonomie individuali.

Freud rinnova insomma la questione di ciò che Kant chiamava l’insocievole socievolezza.  Schopenhauer l’ha illustrata con la favola dei porcospini citata in Massenpsychologie (c. VI)[v].  Non è altro che la domanda attorno alla quale hanno ruotato tutti i pensieri socio-politici dei moderni: come è possibile fare società?

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In termini freudiani e ricorrendo al libro pubblicato due anni dopo – L’Io e l’Es – possiamo dire che la questione diventa quella di come un io si stacca dall’Es e come, una volta staccatosi, può incontrare un altro io.  Così formulata, la questione si complica.  Non procede soltanto dall’a priori di un individuo autonomo, ma allo stesso tempo interroga la provenienza di questo individuo e quindi la sua autonomia.

Attraverso tutti i testi già citati, Freud si sforza di relativizzare o ridurre questa autonomia.  L’Io non è mai completamente separato dall’Es (proprio come il conscio dall’inconscio).  Non ne è, dopo tutto, che una “superficie”.  Ci sono diversi io, ma tutti comunicano con un Es che sembra essere tanto quello di ognuno quanto lo stesso per tutti.  La questione cruciale di Massenpsychologie è quella di ciò che Freud chiama identificazioni, cioè le possibilità di comunicazione (di contagio, di relazione ipnotica) che non riguardano una relazione d’oggetto ma una relazione (o un contatto, una suggestione) tra io che si percepiscono come simili.  C’è una medesimezza [mêmeté] degli io (una medesimezza dei sé) che rende possibile l’identificazione.

Si può aggiungere qui a Freud un’osservazione sul doppio senso della parola “identificazione”.  Oltre all’assimilazione a un altro, può anche significare la costituzione e il reperimento di una identità propria.  Dobbiamo allora pensare che un io non si distacca e non si distingue se non in quanto si assimila a un altro?  Questa è la posta in gioco.

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Ora, si scopre che l’Es presenta dei caratteri che possono orientare la risposta.

L’Es mutuato da Groddeck proviene a sua volta dal Selbst di Nietzsche[vi].  Questo non è un “sé” (sich) ma uno “stesso” rapportato a se stesso, il che è diverso poiché “sé” non contiene l’idea dello stesso.  Ora, secondo una nota postuma di Freud, questo Selbst sarebbe dotato di una Selbstwahrnehmung, di una percezione di sé certo oscura, ma attraverso la quale la medesimezza viene percepita in quanto tale.

In altri termini, possiamo dire che anche l’Es si qualifica come luogo di identità possibili, cioè di distinzioni tra stesso e stesso – poiché esso stesso comporta la dimensione del Selbst.  In altri termini, il pre-individuale non è semplicemente né uniformemente lo stesso per tutti: c’è in esso, come sua struttura, la capacità di dare vita a degli io che si individualizzano solo portando nella loro individualità qualcosa della medesimezza da cui provengono.  E questo qualcosa consiste nella possibilità di relazionarsi con lo stesso.  O ancora: per diventare me stesso passo attraverso la percezione dell’altro stesso.  Uso qui la parola “percezione” pensando a quelle che Freud chiama “percezioni interne”[vii], che riguardano “gli strati più vari e certamente più profondi dell’apparato psichico”.  Il miglior modello è la coppia piacere-dispiacere.  La varietà evocata si riferisce alla varietà delle modalità o delle qualità che possono essere messe in gioco (come ci possa essere piacere o dispiacere, accettazione o rifiuto, accoglienza o distruzione).  La profondità rinvia all’Es o all’inconscio.

Quando in Massenpsychologie (c. VIII) Freud traccia uno schema degli io  che hanno “messo un solo e medesimo oggetto [si tratta della “guida”] al posto del loro ideale dell’Io e così si sono identificati reciprocamente nel loro io”, afferma che è “una massa primaria”. 

La costituzione primaria della massa implica una comunicazione preliminare tra coloro che la formano.  Questa comunicazione non può limitarsi al rapporto con degli oggetti, cioè alla libido.  Deve aver luogo tra soggetti – non come un accordo passato tra soggetti formati, ma nel momento stesso in cui si formano.  Questo è in fondo ciò che Rousseau presentiva dicendo che il contratto sociale era allo stesso tempo l’accesso all’umanità.  Ora, la ben nota difficoltà sollevata dalla domanda: come dei non-umani possano stipulare un contratto – atto quanto mai simbolico, – si ritrova in Freud come difficoltà di districare simultaneità e anteriorità tra gli individui e il gruppo.  Tale è la difficoltà che s’incontra con l’identificazione, che Freud ammette di non essere riuscito veramente a risolvere.

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Non si potrebbe pretendere di trovare una soluzione a ciò che indubbiamente non ne comporta punto – se non si trattasse della ragion d’essere dell’umanità come specie di “animale politico”.  Questa espressione di Aristotele non significa solo “specie adatta a vivere in una città” ma prima di tutto “specie la cui proprietà è quella di riunirsi discutendo e decidendo i modi del suo riunirsi”.  Questo è ciò che Aristotele chiama “una specie dotata di logos”.

In effetti, il linguaggio gioca un ruolo notevole nel lavoro di Freud sulla formazione del gruppo.  Nel supplemento B di Massenpsychologie l’uccisione del padre dell’orda primitiva è presentata come la storia inventata che uno dei figli racconta agli altri.  Questo figlio sarebbe stato l’ultimo nato e come tale il preferito della madre che lo avrebbe protetto dal padre.  Questo figlio privilegiato risente nondimeno della privazione del padre e si stacca dalla massa (una massa già effettiva ma mal costituita)[viii].  Quello che prova è nostalgia del padre originario.

Mettiamola così: l’inventore del primo racconto dell’origine vuole inventarsi come l’assassino del padre, cioè come colui che lo sostituisce.  Lo fa sotto la pressione della nostalgia, di una Sehnsucht che è anche, come Sucht, dell’ordine della dipendenza o della passione – di quel desiderio appassionato che Freud discerne nella massa[ix].  Egli è mosso così da un doppio affetto: questa nostalgia appassionata e la tenerezza particolare che riserva a sua madre.  Egli arriva così a presentare una “falsa reinterpretazione del tempo originario”.  Forgia un mito di cui è l’eroe.  Recitando agli altri il poema della sua invenzione dell’origine, permette loro di identificarsi con lui, perché tutti provano la nostalgia del padre.  “Il mito è così il passo grazie al quale l’individuo esce dalla psicologia di massa”.

Si potrebbe dire che ne esce per conferirgli la sua verità.  Perché il mito instaura la possibilità stessa dell’identificazione.  La massa si identifica con l’eroe e così facendo identifica se stessa come un insieme di identità simili e quindi permutabili o sostituibili.  Freud rinvia qui in nota a un libro di Hanns Sachs[x].  Leggendo quest’ultimo, si può vedere che Freud gli deve molto per l’analisi dell’eroizzazione.  Tuttavia, trascura una frase.  Hanns Sachs termina la sua descrizione del poeta come eroe del racconto facendo osservare che la sua identificazione (nel senso di riconoscimento) rischia di impedire ai suoi ascoltatori di identificarsi con l’eroe.  “Per eliminare questo ostacolo, il poeta deve creare un eroe impersonale o, per dir meglio, sovrapersonale con il quale può identificarsi, così come gli uditori tutti, poiché è allo stesso tempo ciascuno e nessuno”.

Freud trascura questa frase perché la sua attenzione rimane fissa sulla figura di un eroe dominante, che diventa Dio o Capo.  L’identificazione per lui è prima di tutto, se non essenzialmente, gerarchica[xi].  Le subordina pertanto l’identificazione orizzontale che è tuttavia necessaria alla prima – ciò che non vuol dire anteriore, ma almeno concomitante.  La nostalgia del padre è al lavoro in lui anche quando cerca di scoprire come gli “io” in via di formarsi – di separarsi dall’Es e tra di loro – facciano mutua esperienza di sé come simili.

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È indubbiamente necessario tornare con più attenzione sulle condizioni indicate dallo stesso Freud come quelle che innescano il processo di identificazione.  Ce ne sono due: il linguaggio e gli affetti.  Consideriamole in successione prima di chiederci che relazione ci sarebbe tra loro.

Il linguaggio è evidentemente non solo il mezzo ma il luogo effettivo dell’identificazione, che si tratti di quella del figlio con padre o di quella dei fratelli con l’eroe che [il figlio] ha creato.  È necessario parlare qui di creazione poiché è con niente che il padre è inventato, cioè nominato.  La nominazione è sia quella del suo nome proprio – non fosse altro che quello di “Padre” come nome di chi non ha né nome né esistenza – sia quella della genesi o generazione da cui proviene il gruppo.  Quest’ultimo si identifica con un’identità non identificabile.  La massa o il collettivo è ciò che si cerca o si progetta un’identità.  Ciò che è in attesa o in richiesta di identità, cioè di Selbst, di se stesso, perché il sé è ciò che è oscuramente, confusamente percepito come inerente all’esistenza di qualsiasi cosa – di tutti i corpi fisici o fisiologici, di tutte le presenze ammassate o mescolate.

A questa domanda il linguaggio non dà risposta: la espone come domanda. Espone la ricerca generale dell’identico attraverso la molteplicità indefinita e indistinta.  È linguaggio nella misura in cui porta [in sé] la possibilità di identificare ciò che si chiama un senso.  Questo si può immediatamente rovesciare e dire: in quanto il senso è l’elemento dell’identità e della distinzione che è il suo corollario.

Ciò sul cui limite Freud si ferma proponendo un mito della nascita del mito è precisamente la nascita del linguaggio e/o del senso.  Lacan ha colto assai bene che questa era la posta in gioco, qualificando l’identificazione come “identificazione del significante”[xii] e precisa subito che non si tratta di “identificazione immaginaria”, nel senso che non è identificazione con una forma o una figura data, ma identificazione reciproca di due (o più) che si scoprono [come qualcosa di] “uguale” proprio in quanto possono formare una forma non data, cioè significare.

È qui, senza dubbio, che si coglie nel miglior modo come il “significante” di Lacan debba essere inteso nel senso attivo del soggetto nell’atto di significare – o di far nascere del senso, perché un soggetto non è, insomma, altro che questa capacità o questa puntualità significante, che è la stessa in tutti, e poiché si effettua solo per tratti successivi, se così si può dire, in ogni punto di nascita del senso, è anche quello che fa che secondo Lacan “il soggetto parlante puro […] è portato […] a prenderti sempre per un altro”.  E questa relazione a un altro nella misura in cui opera tra tutti gli stessi è ciò che Lacan traduce come “grande Altro”, ma di cui possiamo anche dire che è la relazione di senso, che è anche ogni volta una relazione al senso come a ciò che distingue e collega allo stesso tempo dei sé stessi (degli io, dunque, ma degli io in procinto di identificarsi e mai identificati nel senso di un participio passato).

L’interpretazione lacaniana soddisfa pienamente la richiesta di Freud: fa luce sulla comunicazione degli io nella loro stretta distinzione e in quanto, derivando da uno stesso Es, gli appartengono ancora, pur separandosi come gli stessi che si significano [vicendevolmente] il loro comune essere discreti – nel senso matematico della parola, ma anche nel senso del riserbo, del ritegno di ciascuno che rimane l’altro e perciò un tutt’altro secondo l’espressione di Derrida[xiii].

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Questa logica delle unità discrete corrisponde anche[xiv] a ciò che Lacan chiama il “tratto unario”: ognuno conta per uno senza che nessuno valga per tutti.  Bisogna dunque chiedersi come comprendere la distinzione – in questo caso non molto discreta – di figlio prediletto, creatore ed eroe del mito.

Come tale, è poeta, e Freud sottolinea il carattere poetico di questa prima parola.  È forse più facile capire perché non ha tenuto conto dell’ultima frase di Hanns Sachs: anche se l’eroe deve valere come tutti e nessuno, si è dovuto  inventare questo personaggio “impersonale o piuttosto sovrapersonale”.  Forse Freud percepisce il superio che l’inventore del mito può generare o diventare lui stesso.  A questo titolo, bisognerebbe complicare la questione dell’“archefilia” evocata prima.  L’anarchia di cui ho parlato non può essere separata forse senza resto da una gerarchia (come sappiamo, qui c’è un nodo di problemi per la democrazia).  Ma non è a questo che dobbiamo fermarci.  È prima di tutto il poeta in quanto tale che è oggetto di distinzione[xv].  Il poeta – come è noto – si distingue per Freud per una capacità molto speciale, che appare qui, come abbiamo visto, nella “reinterpretazione menzognera” che presuppone un talento o un’arte tanto più speciale in quanto ciò che viene “reinterpretato”[xvi] non era mai stato interpretato prima (altrimenti si dovrebbe attribuire al padre la qualità di inventore del mito).  Il primo poeta inventa un senso dissimulando il senso anteriore – il che presuppone che ce ne fosse uno.

Per fare questo i poeti godono di facoltà speciali.  Dispongono così “di una sensibilità capace di cogliere le emozioni nascoste nell’anima altrui e del coraggio di lasciare che il proprio inconscio si esprima.”[xvii]  Il creatore del mito ha percepito la nostalgia del padre comune a tutti, e facendo parlare il suo inconscio è all’inconscio di tutti che ha dato la parola, una parola che è quindi fin dall’inizio singolare e plurale, comunicazione di tutti con tutti come condivisione del comune.  Questa parola non è il logos, almeno non quello che Aristotele evoca come facoltà “politica” dello scambio a proposito del bene comune.  Oppure bisognerebbe congiungere con questo logos, in una congiunzione inestricabile, il mythos il cui valore primario non è quello del discorso ma dell’espressione, del profferimento.  Se il logos discute, il mythos pronuncia.  È un dire investito nel suo proprio detto o, se si preferisce, è un dire che dice innanzitutto se stesso.  Si potrebbe arrivare a designarlo come un se-dicente dire.

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Dicendosi comunica questa se-dicenza agli altri.  Il mito è una parola propria a tutti e a ciascuno, mentre il logos è un discorso per tutti che non è proprio a nessuno.  Sono addossati così l’uno all’altro, Janus bifrons del linguaggio che attinge all’Es e [si] articola attraverso gli io.

Il poeta è dunque l’altro del logico (scienziato, filosofo, oratore).  Il poeta è l’altro che parla della stessa cosa, cioè appunto dell’essere-insieme, il Mitsein, a cui attiene il linguaggio, che attiene al Mitsein stesso.  Se tuttavia si trova una divisione interna del linguaggio stesso, a cosa si deve?  Evidentemente il logos è dalla parte dell’io distaccato, mentre il mythos riguarda l’Es che lascia che un io si distacchi.  Quindi la prossimità della poesia alla psicoanalisi è quasi un’intimità.  Un’intimità non è tuttavia un’identità, così come un’identificazione non è un’unificazione.

Lo sa bene Lacan, che non si è accontentato di notare la stessa prossimità di Freud, ma è arrivato a identificare se stesso – o piuttosto la sua parola, o se stesso come parlante – come poema[xviii].  Dicendo “je suis né poème et papouète “[“sono nato poesia e papua”], si identifica come parola originaria, e al tempo stesso originante, mentre allo stesso tempo rifiuta quella che Bataille chiamava la tentazione viscida della poesia e che da allora – o da Rimbaud forse – non ha cessato di essere denunciata: la poesia come estetismo prezioso ed[xix] enfatico[xx].  Questo passo sembra portare all’identificazione di psicoanalisi e poesia.  Ma Lacan lo fa solo per gioco.  Sa che non può dipendere da una decisione personale perché dovrebbe essere innescata prima dalla madre e dal gruppo.

Come abbiamo visto, questo innesco richiede determinate condizioni.  Queste condizioni non sono necessariamente assenti oggi, e ci sono poeti – o almeno poesie – tra noi, anche se non ci sono le condizioni per un Omero o uno Shakespeare, per prendere due io incerti e portatori di un irrecusabile potere di identificazione i cui effetti non si sono spenti.

Si può dunque dire “poesia e psicoanalisi rimettono in questione il Sapere per  aprire, nella loro pratica, alla verità”[xxi].  Al che bisogna aggiungere che è proprio con questo gesto che la filosofia si è messa alla prova o si è confrontata da Hegel fino a noi, che Lacan ha saputo riprendere e a cui Freud dava inizio affermando che le pulsioni sono “i nostri miti”.   Resta nondimeno che ci si deve chiedere perché ci siano tre pretendenti a un ruolo che sembra veramente esigere l’unicità.

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L’unicità – l’isolamento, perfino – del figlio minore è infatti necessaria per permettere al mito di rivolgersi a tutti e a ciascuno allo stesso tempo.  Bisogna che una stessa voce colpisca le orecchie di tutti i consimili.  (Il fascismo, sia esso nazional-razziale o tecno-globale, non è altro che la produzione forzata e artificiale di una voce unica).

Ora ciò che isola il più giovane, ciò che lo pre-individualizza, si potrebbe dire, è prima di tutto il fatto di essere l’ultimo nato, che chiude la serie, e poi di essere preferito dalla madre.  La madre lo preferisce indubbiamente proprio perché chiude la serie.  Tutto avviene come se la fecondità del padre o della madre fosse esaurita o come se la madre, in ogni caso, volesse porvi fine (e quindi come se in un certo senso il ruolo del padre avesse già cominciato a stingere).  Il figlio minore è così l’oggetto o il soggetto di due potenti affetti: l’amore della madre, l’odio del padre.

Questo doppio affetto mostra il fenomeno affettivo nella sua ambivalenza.  L’affetto non sopraggiunge solo dall’esterno al soggetto: lo plasma ed è ciò mediante cui lui plasma il mondo (lo colora, lo fa vibrare).  L’amore della madre è lo stesso: è il mettere al mondo.  Per questa ragione la madre non è mai completamente distinta dal mondo (o dall’Es) e per la stessa ragione può essere sia rifiutata che amata, perché essere al mondo significa anche non essere più il mondo stesso nella sua identità indistinta.

Il padre, al contrario, è il distacco stesso: è la possibilità di un fuori-dal-mondo, di un’autonomia.  È dunque odiato in due modi: come un’espulsione[xxii] verso l’esterno ben distinta da una messa al mondo, ma allo stesso tempo come posizione autosufficiente, la sola che può prendere l’“ideale dell’Io” dal momento che un io si distacca o tende a distaccarsi.

Questa doppia duplicità affettiva, questo raddoppio tra madre e padre dell’ambivalenza che in fondo è l’affetto stesso – la spinta repulsiva verso il distacco, verso l’individualità – ci obbliga a discostarci un po’ da Freud o a prolungarlo per riconoscere che si tratta di uno stesso movimento: quello dell’es.  L’oscura percezione di sé dell’es può solo percepire simultaneamente una forma di medesimezza con sé e la spinta o la pulsione di questa forma verso se stessa, cioè verso il suo distacco in quanto “io”.

L’es e l’io si co-appartengono in tal modo che non solo l’io è teso verso il suo distacco, ma questa tensione è altrettanto dell’es.  In questo modo, l’io può solo continuare a dipendere dall’es e l’es può solo continuare ad essere al fondo dell’io.  Ma allora bisogna intendere la nostalgia del padre come un genitivo oggettivo e soggettivo insieme: nostalgia per il padre e nostalgia paterna per l’io nel quale vuole ritrovarsi.  Possiamo dirlo in termini di narcisismo: essendo escluso il narcisismo assoluto (come contraddizione in termini), bisogna affidarsi al narcisismo relativo – che è all’opera nella relazione o relazionale esso stesso.

Andando più lontano, si potrebbe mostrare come padre e madre siano intrecciati [intriqués] tra loro o come l’essere-gettato e l’essere-al-mondo siano correlati, ma anche come questa correlazione implichi il collettivo o la pluralità degli io, poiché dalla parte del padre ci può essere solo esclusione dell’unicità e dalla parte della madre c’è il mondo, che implica l’alterità e la circolazione di unità di senso discrete.  E da entrambe le parti c’è ambivalenza affettiva: amore e odio per ciò che mi ha pro-gettato e per ciò che mi ha aperto il mondo.

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L’affettività, come si è detto, non sopravviene al soggetto: lo commuove e così lo muove.  Come scrive Simondon: “L’affettività-emotività è un movimento tra l’indeterminato naturale e l’hic et nunc dell’esistenza attuale[xxiii] – esistenza che si trova così “incorporata nel collettivo” perché “l’individuo in quanto sperimenta è un essere connesso”.

A questo punto, non si può più dubitare di ciò che Lacan afferma in questo modo: “Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale”[xxiv].  Ciò che naturalmente deve essere compreso secondo il carattere del soggetto lacaniano la cui “esistenza è quella di un ‘tra’, appartiene a una mesologia”[xxv].  Il collettivo è allo stesso tempo l’ambiente, se così si può dire, naturale, dell’individuo e lo scarto relazionale grazie a cui gli individui si relazionano gli uni con gli altri.  Si sperimentano mutuamente in quanto si commuovono: per lieve che sia l’emozione, è quella che mescola gli io tra di loro.

Che ne è del linguaggio in questa mescolanza?  Freud non ne dice nulla – anche se ha cura di segnalare la “calotta acustica” dell’io[xxvi] Per Lacan, il linguaggio fa dell’affetto “qualcosa d’altro”.  “Ne fa, mediante la parola, un mezzo di comunicazione”[xxvii].  Tuttavia, se l’affetto ha già luogo nella relazione con l’altro, è difficile fermarsi a questo spostamento – che per Lacan è quello della metafora, appunto, come spostamento (questo è il significato greco della parola) dal proprio al figurato o dal fantasma inesprimibile alla parola comunicabile[xxviii].

Se ci fermassimo a questo, non avremmo detto nulla sulle ragioni di questa presunta metafora.  Dobbiamo andare oltre nella relazione tra linguaggio e affetto.  Rousseau ci apre la strada.  Si sa che ha scritto: “i bisogni dettarono i primi gesti, le passioni strapparono le prime voci[xxix].  L’affetto fa parlare, o più precisamente fa risuonare prima la voce[xxx].  La voce non è a prima vista il linguaggio articolato ma l’elemento sonoro di ciò che Bernard Baas chiama “la voce in corpo”: la voce in quanto viene dal corpo, è del corpo e si forma dentro di lui.

Ciò che si forma in questo modo porta il corpo fuori del corpo.  Lo fa ascoltare.  Questo ascoltare è un sentire: la voce modula per Rousseau “gli accenti (accens)[xxxi] della passione” e “questi accenti ci fanno trasalire […] ci fanno sentire ciò che ascoltiamo”.  Nella voce il corpo si comunica al corpo dell’altro.  Questa comunicazione ignora ogni trasposizione di un inesprimibile in un’espressione: crea rapporto, è simultaneamente scoperta dell’altro – di sé come altro, dell’altro come sé, lo stesso/la stessa – e appello all’altro[xxxii].  Il primato del collettivo sull’individuale attiene al fatto che l’appello al “tu” è contemporaneo al distacco dell’“io”.

Quest’appello comunica un’emozione solo perché l’emozione stessa è una chiamata dall’esterno e verso l’esterno – che mette in moto lo stesso come tale. Da nessun’altra parte, al tempo stesso, è meglio marcato il carattere dell’identificazione in quanto non è né fusione né unificazione.  L’emozione non riconduce all’es, ma è piuttosto l’autopercezione dell’es in quanto chiama se stesso.

Si chiama, e dal momento che si chiama si altera e si identifica.

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In questo è poetico.  Il poema non è in primo luogo una messa in gioco della lingua sui margini estremi della significazione.  È ancor più l’apertura della possibilità del senso.  Jean-Christophe Bailly scrive:

È qui […] che si nasconde – e che scaturisce la natura sonora della poesia e il suo rapporto nativo con la prosodia ed il canto: la poesia non inventa nulla, ma portandosi in primo piano nel linguaggio, ne raccoglie pienamente la risonanza, e confonde questa risonanza con l’intensità di un senso.  La poesia è la tonalità del senso[xxxiii]

Basti aggiungere che il senso è prima di tutto tonalità – tensione, vibrazione, inflessione non semplicemente della voce come fenomeno acustico ma della voce come espressione di un’emozione [de la voix en tant que corps ému].  Il senso è che ci sia un chiamare e un rispondere.  Non è il significato, che di per sé rimanda indefinitamente ad altri significati.  È, al contrario, questo rinvio stesso come invio all’altro.

Il senso non è al di là della significazione: è la significanza di ogni significazione in quanto è sempre ancora da venire.  E in corpo [encore/en corps] per riprendere l’omofonia che Baas fa risuonare.  Il senso viene attraverso l’altro, e come altro, viene come auto-alterazione dell’es.  Auto-alterazione in effetti – coordinata con l’auto-percezione – poiché la voce si intende.  Dal Narciso parla di Valéry, Derrida trae questo: “la voce sembra fare a meno della deviazione dell’esteriorità dello specchio o dell’acqua, del mondo, per riflettersi immediatamente, nell’intima istantaneità della risonanza.[xxxiv]

Così la poesia, come fa risuonare la sua voce in se stessa, senza intenzione comunicativa, fa risuonare non solo le emozioni ma la mozione o la pulsazione del mondo.  “La più antica poesia è la religione”, scrive Kant[xxxv].  La religione qui non è una credenza, è la chiamata e l’ascolto di una voce che è la voce di tutti attraverso un corpo – un corpo totemico, un corpo mitico che è nondimeno e al tempo stesso quello di una voce singolare.  È il racconto del mito della tribù[xxxvi]

Certo accade che a volte un gruppo non trovi o perda il suo mito.  Allora comincia a decomporsi, i suoi poeti lo sono solo di nome, per produrre effetti, e il mondo si trasforma in una connessione.  Ma quando succede, la poesia (non la pouasie) dà voce non solo a tutti[xxxvii] ma al cosmo – che anche lui è nell’es.  La nostalgia del padre secondo il suo doppio genitivo è la nostalgia del soggetto per un mondo e del mondo per coloro che lo abitano.  La poesia è la voce messa al mondo e il mondo messo in voce.

Questo può essere detto con i versi di Michel Deguy dove l’“identificazione” ha il senso di un’assimilazione identitaria e si vede opporre le somiglianze degli stessi:

La comparazione intrattiene l’incomparabile
La distinzione delle cose tra loro
Poesia proibisce l’identificazione
Per la dolcezza del come rigorosa
Comune?
Come-uno
È tutto come se
Era come-uno.
[xxxviii]

Note:
[i] L’Io e l’Es, c. III.  Mi accontenterò di indicare dei testi di Freud le sezioni, perché preferisco tradurli io stesso: così i riferimenti permetteranno di orientarsi sia a quelli che vogliono vedere il testo tedesco, sia a quelli che vogliono consultare le traduzioni.  Comunque non è un lavoro di erudizione.

[ii] O per un supplemento, nel senso analizzato da Derrida.

[iii] Con Philippe Lacoue-Labarthe avevo lavorato su questo punto in La Panique politique  nel 1979 (ripubblicato da Christian Bourgeois nel 2013).

[iv] Questa parola nel 1921 non era carica dei valori che ha oggi, a volte peggiorativi, a volte rivoluzionari.  Designava al tempo stesso il numero, la moltitudine, il collettivo o il comune scoperto da circa mezzo secolo come aggregazione, assemblea o mescolanza di individui.  Questo è un problema se si parte dall’individuo, come nel caso di Freud e di tutti gli altri, ad eccezione dei marxisti, per i quali il concetto di classe dovrebbe trasformare tutta questa problematica.  Il plurale della parola “massa” nel titolo di Freud corrisponde al plurale “folle” nel libro di Le Bon che commenta.  Poiché questo termine ha oggi una connotazione più dispersiva che nel 1900 (“c’è folla nella metro”) preferisco mantenere il termine “massa”.

[v] In occasione del suo viaggio negli Stati Uniti nel 1909 Freud dichiarò che voleva osservare un porcospino selvatico.

[vi] L’ho analizzato in Cruor.

[vii] L’Io e l’Es, c. II

[viii] Come Freud spiega in modo complesso e un po’ maldestro, perché sembra sia voler parlare dell’origine, sia ripercorrere una traccia preistorica che avrebbe condotto da una prima società totemica, che rinuncia all’eredità del padre, a una “nuova famiglia” dai molti padri sprovvisti dell’onnipotenza del padre originario, e perciò insoddisfacente (che sembra corrispondere a una società contemporanea dei primissimi miti conosciuti e della poesia di cui Freud vuole parlare).  Di conseguenza la sua scena è al tempo stesso  primaria e secondaria – il che è molto istruttivo quanto all’impossibilità di cogliere un’origine in senso proprio,   

[ix] Massenpsychologie c. II

[x] Gemeinsame Tagtraüme (Sogni comuni a occhi aperti)

[xi] O meglio ”archeofilica”, come dicevo in La Panique politique

 [xii] Seminario del 1961-1962 sull’identificazione, seduta del 22 novembre 1962

[xiii] “Tutt’altro è tutto altro”

[xiv] Nello stesso seminario.

[xv] Beninteso, bisognerebbe porre la questione del potere di un poeta.  Ma non posso farlo qui.

[xvi] Umdeutung (reinterpretazione) può essere compresa nel senso di un rovesciamento, di un’inversione, o addirittura di una perversione.

[xvii] Beiträge zur Psychologie des Liebeslebens, I (Contributi alla psicologia della vita amorosa, I).  Come si sa Freud è tornato spesso sulle facoltà superiori dei poeti e degli artisti in generale quanto alla penetrazione della psiche.  In L’avvenire di un’illusione II si legge: “Le opere d’arte esaltano i sentimenti di identificazione di cui ogni gruppo culturale ha così gran bisogno”

[xviii] Œuvres graphiques et manuscrites p. 48.

[xix] Esther Tellermann, Freud-Lacan « Consultation-document (Freud-lacan.com)

[xx] Questo rifiuto moderno della “poesia-pouasie” costituisce un sintomo importante della sparizione del mito e della nostalgia che la accompagna a partire dal romanticismo tedesco.  La nostalgia ha sostituito il mito al padre e questa nostalgia è aggravata dalla sofferenza di non poter far nascere un nuovo dire dell’origine [un nouveau dire originel].

[xxi]Esther TELLERMANN S’apparenter à un poète.pdf (gnipl.fr),  Il termine apparentare è ripreso da Lacan e si distingue indubbiamente dalla “piatta parentela”: è ciò che questo testo commenta. 

[xxii] Bisogna pensare proprio alla Geworfenheit, la deiezione di Heidegger.

[xxiii] L’individuation à la lumière des notions de forme et d’information, Million, 2003, p. 247 poi 244.  Bisognerebbe in altro luogo seguire da vicino le analisi di Simondon, specie nel loro rapporto a distanza con la psicoanalisi.

[xxiv] Ecrits, Seuil, 1966, p 247.  Questa frase viene di seguito a un richiamo di Massenpsychologie.

[xxv] Studio degli ambienti, quindi delle relazioni, dei rapporti e degli scambi.

[xxvi] L’Io e l’Es, II.  La calotta figura nel famoso disegno della seconda topica.  Paul Celan ha ripreso e spostato la Hörkappe in Hörklappe (calotta acustica) nella poesia Schief.  Si veda il commento di Jean Bollack: “Celan legge Freud” in Savoirs et clinique, 2005/1 n° 6.  Questo intervento del poeta meriterebbe nuovi altri commenti: per farla breve direi che Celan sembra voler dire che il poeta intende diversamente o meglio dell’analista.

[xxvii] Seminario sull’identificazione, maggio 1962.

[xxviii] Il pensiero di Lacan non può essere ridotto a questa vulgata lacaniana.  Si può fare riferimento, per esempio, a “L’erre de la métaphore” di Eric Porge, Essaim n°21, 2008.  Vedi dallo stesso Voix de l’écho, Erès, 2012.  Ciò che sposta l’opposizione del proprio e del figurato, da cui procede l’idea stessa di metafora, richiederebbe naturalmente di passare attraverso “La mitologia bianca” di Derrida e la discussione con Ricoeur che seguì questo testo. Parallelamente a questo lavoro filosofico, è verso una topologia che Lacan si è mosso.  Da parte mia, vorrei tornare alla poesia, cioè mostrare che parlare di poesia eccede qualsiasi discorso del sapere.  Non per dire di più o meglio, ma per rimettersi al dire.

[xxix] Essai sur l’origine des langues.

[xxx] Sul tema della voce tra psicoanalisi e filosofia bisogna leggere i lavori di Bernard Baas.  La voix déliée, L’écho de l’immémorial e Jouissances de la voix, in cui parla della “voix en corps” – di prossima pubblicazione.

[xxxi] Ortografia d’epoca

[xxxii] Si deve pensare alla “pulsione invocante” introdotta da Alain Didier-Weil e ripresa da Lacan.

[xxxiii] Naissance de la phrase, Nous, 2020, p. 61.

[xxxiv] Marges de la philosophie, Minuit, 1972 p. 341.  Certamente bisogna dire che questa “immediatezza” è un’apparenza (“sembra” scrive Derrida).  La voce è articolata e quindi mediatizzata.  Non c’è una distinzione netta tra voce e discorso, tra senso e significato.  Ciascuna e ciascuno rinvia piuttosto all’altro, risuona nell’altro (è quello che fa un “soggetto”). A proposito di risonanza, si trova un’eco nel mio A l’écoute (Galileo, 2002).

[xxxv] La religione nei limiti della semplice ragione, I, 1.

[xxxvi] Come si passi dalla voce totemica alla credenza, e come nella frase di Kant, per citarla integralmente, si tratti della “religione dei preti”, è una questione che non posso affrontare qui.

[xxxvii] Anche a quelli che non la intendono.  Fintantoché il mito è pronunciato, tocca tutti i membri del gruppo, crea identificazione.  Quando cessa di farlo e diventa propaganda che sia di un dittatore o di una band di pubblicitari (è la stessa cosa), il gruppo tutto quanto ascolta qualcosa che in realtà non è la sua voce.  O smette così di fare gruppo e piuttosto fa massa nel senso attuale della parola.  Bernard Bass esamina questo punto nel capitolo « Des clameurs du peuple » di Jouissances de la voix.

[xxxviii] Aide-mémoire dans Comme ci Come ça, Gallimard, 2012, p. 105 (testo pubblicato nel 1985).