Massenpsychologie und Ich-Analyse.
Altri orizzonti
C’è un tempo mitico in cui la massa umana come entità sorge dal Caos indistinto, e da essa, con sincrono distacco dall’Es, cominciano a nascere i soggetti, che faranno parte di tutte le masse, che possiamo sognare.
Il sistema soggetto/massa trae origine anche dai luoghi, dalla scena del mondo animato e inanimato non umano in cui tutto si svolge, e che contribuisce a costruire, insieme alle pulsioni e ai suoi ideali, la città.
Freud
Il testo freudiano Massenpsychologie und Ich-Analyse (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921) propone un’interpretazione dei meccanismi psichici che presiedono alla vita e alla coesione dei gruppi umani, e al rapporto fra i singoli e fra questi e il capo, essenzialmente fondata sulla libido e l’idealizzazione, secondo un processo a direzione verticale (che unisce al capo, collocato al posto dell’ideale dell’Io) e orizzontale (riguardante l’investimento libidico dei “fratelli”). Ma non è solo in gioco la libido. La spiegazione della costituzione del soggetto e del rapporto fra soggetti umani è basata sul linguaggio (il mito, la parola poetica, la corrispondenza col significante di ciascuno dei soggetti che si costituiscono nell’identificazione con se stesso e nella differenza da ogni altro). Un costituirsi che è un atto che non smette di essere ricompiuto, e che riconosce la sua causa nell’Altro, oltre che nel contatto con l’altro.
In questa lettura riveste un’importanza fondamentale e apparentemente esclusiva il rapporto fra persone, fra soggetti che poi sono anche reciprocamente oggetti in quanto luogo del vicendevole investimento libidico. Su questa base, in cui peraltro il narcisismo incrocia il rapporto d’oggetto, si chiuderebbe il cerchio e verrebbe assicurata la fondazione e la persistenza del legame, e dunque la perpetuazione della vita del gruppo. Non è tanto in gioco una visione sociale, quanto la strategia e la forza creativa dell’inconscio nella creazione di struttura psichica individuale e collettiva, dal nascere del soggetto all’incontro con l’altro. In altre parole, si tratta qui delle politiche dell’inconscio, da cui procedono il singolo soggetto e il gruppo, dell’effetto della libido che non può rappresentarsi e agire senza cercare un oggetto una meta negli uomini, senza contribuire a produrre forme di comunità fra i singoli. Tali forme non si identificano in origine con organizzazioni sociali, ma con modi della mutualità all’insegna del linguaggio e degli affetti, e dell’identificazione di un ideale comune che renda possibile il trascendimento di sé nell’altro e in una dimensione ultramondana.
Si può ritenere che per la fondazione del collettivo e dell’Io vi sia un ruolo oltre che degli individui umani anche di fattori impersonali e non umani. Preciso che il mio discorso non si correla alla Chiesa e all’esercito, al centro dell’analisi freudiana (esse sono già organizzazioni strutturate secondo specifiche finalità). E neanche va riferito alla folla normalmente presente nelle metropoli o che si può formare estemporaneamente ovunque in una certa situazione).
Porto un piccolo frammento del soggettivo racconto psichedelico che illustra, intendendo il termine alla lettera, il complesso manifestarsi appunto della psiche del soggetto attraverso l’Io e gli io. Racconto tanto più importante in una situazione, come quella planetaria odierna, che tende a schiacciare e semplificare, eliminare differenze e sfumature, a rendere l’uomo a una dimensione, come Herbert Marcuse osservava negli anni 60.
Il mio obiettivo è verificare l’ipotesi che il formarsi di ciascun io avvenga non solo per distacco diretto dall’Es, ma anche per l’aggiungersi di un rispecchiamento di altre forme, sorgenti da elementi e figure dell’ambiente umano e non umano, che sono il riflesso di più soggetti e quindi non sono segnate da “medesimità”, non sono cioè altro stesso, nella terminologia di Nancy[1].
Inoltre, come Nancy sostiene, nella voce il corpo, la sua vibrazione causata dalle passioni si comunica al corpo dell’altro. ”Questa comunicazione [ ] è simultaneamente scoperta dell’altro – di sé come altro, dell’altro come sé e appello all’altro”.
Ma questo appello mi sembra presupporre, insieme a un Tu, un’alterità diversa, almeno una pre-forma incompiuta ma non a immagine e somiglianza di sé, qualcosa di là da venire che la poesia potrebbe dire, aprendo a un senso che implica un’auto-alterazione dell’Es.
Mi sembra comunque di poter dire che resterebbe comunque quell’amore, di cui Nancy ha scritto[2], che si dice come profezia all’altro, soprattutto vi sarebbe chi ha i requisiti per dirla questa profezia, cioè chi è un altro che non è l’Io di chi parla, ma l’altro di ogni “io”, di cui si vuol far intendere la voce.
Se così fosse, non vi sarebbe solo libido desessualizzata a unire i singoli nel gruppo, a far sorgere nell’uomo la città.
Procederò cominciando col delineare il luogo, la scena, e la cornice interpretativa in cui nella mia ipotesi, che presenterò nel paragrafo successivo, tutto accade.
Oltre Freud: l’unità dell’umano e del non umano
La Kultur delle moltitudini cui mi riferisco nella mia ipotesi mantiene qualche caratteristica del prelogismo descritto presso gli abitanti dei mondi culturali tradizionali — quelli che al suo tempo si chiamavano “popoli primitivi” — da Lucien Lévy-Bruhl[3]: una condizione psichica e spirituale in cui l’uomo è ben lontano dalla moderna unità trascendentale dell’autocoscienza, e anche da una differenziazione netta dal mondo della natura e dalle altre creature viventi. Al punto da ammettere delle ibridazioni immaginarie parallele fra specie, come nel caso degli indigeni Bororo del Brasile, di cui aveva riferito Karl von den Steinen, che si sentivano appartenenti a due specie diverse, quella del pappagallo e quella dell’uomo, sfuggendo ai principi aristotelici.
E ancora, per la legge di partecipazione, essi erano detentori di un’identificazione plurima in cui i confini individuali sono labili e oltrepassati facilmente da esperienze emozionali e significati. Nel loro universo esperienziale i confini fra il soggetto umano, l’ambiente e altre creature o elementi del mondo reale sono assai labili; è come se in esso circoli una sorta di energia che coinvolge allo stesso modo uomini, animali, piante, altri viventi e il mondo inanimato. L’uomo di queste culture tradizionali si sente fuso in una sorta di unione mistica con tutto ciò che ha intorno, in cui si coglie la scia del numinoso.
Una fase successiva potrebbe essere quella descritta da Monica Ferrando nel suo importante libro, cui anche più avanti faccio riferimento, Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico, in cui vivevano gli abitanti, che si tramandava fossero comparsi sulla terra prima della luna e degli astri, di un mondo antichissimo e favoloso, che appariva già archeologico a Pausania il Periegeta quando nel II secolo dopo Cristo si avvicinò per una visita ai luoghi dove s’era esteso, e alla città di Licosura.
In esso invisibili interstizi fra materia e soffio creatore, fra uomini e cose, accoglievano contrasti e opposizioni entro l’unificazione poetica in un senso superiore e inatteso.
Come scrivevo altrove in rapporto a questo libro (Pascarelli 2021) “per intuizione e intelligenza suggerite dal cielo i greci e quel popolo misterioso “in possesso dell’amore del pensiero” riconobbero nel canto degli uccelli, un suono di origine naturale “privo di pensiero e di artificio”, il nomos, istituto concettuale cruciale per la civiltà, il quale fa corrispondere, all’unità di una scansione tipica di note e suoni per ogni specie di uccelli, il metro che indica “ogni azione giusta”.
Fu riconosciuta così, come principio teoretico generale, la possibilità di un impulso di conoscenza che dal mondo non umano trapassa come dono impensato in quello umano, a fondarne i principi regolatori che si oppongono alla violenza e alla legge del più forte.
Qualcosa unisce il nomos alla terra, che nutre uomini, piante e animali, e alla musica, sicché con l’aiuto di Dike – la Giustizia – viene inaugurato un mondo dispiegato dal mito e dalla poesia.
Se Dike dona la pace e impedisce la supremazia dei più forti, la Poesia dona il futuro quando nell’elaborazione del dolore, che pure ad essa soltanto riesce, sembra incombere assoluto il presente. “Fuori dalla poesia”, suggerisce Monica Ferrando, “il tempo avrebbe totalmente smarrito la sua struttura musicale, cioè la sua forma ritmica, per richiudersi e scadere a quantità numerica senza limite e senza fine. Si sarebbe separato dalla realtà della parola, come scaturigine dei nomi delle cose entro l’accordo fondamentale con physis, che riconosce ad ogni cosa il suo nomos”.
In esso la civiltà ruota dunque intorno alla valorizzazione dell’origine poetico-musicale del nomos – poiché era nel canto che si tramandavano le leggi antiche – e del suo rapporto col modo di insediamento umano sulla terra e di distribuzione del nutrimento per uomini e animali, nella triplice indissolubile significazione del termine nomos come legge, pascolo, musica.
La legge non si impone con prepotenza né si staglia nel rigore astratto e distante, ma è cantata, ricorda Ferrando, e si tramanda con la musica, partecipe di una sensibilità cosmica che in tutto si riverbera. In essa si riconosce un ritmo, lo stesso che sta al centro della poesia. Pulsazione che è un battere di piedi sulla terra, o di mani, un risuonare della voce, il respiro, un’intermittenza che segna il passo del cosmo, si ritrova nei metri cantati, nei “piedi” della poesia, e corrisponde all’alternarsi delle stagioni, a momenti dello spostamento nomade, a cicli del raccolto e della riproduzione degli animali».
In questo canto, nella poesia, si unificano cose oggi separate, si realizza cioè l’unione di cielo e terra, di Paradiso e inferno, di mente e corpo, di corpo e mondo, di corpo e legge, l’unità dei viventi e degli elementi del mondo inanimato. In questo assetto il mondo non è fatto solo per l’uomo e accoglie il prodigio, ciò che esorbita dalla comprensione e dal senso.
Lo spirito di questa civiltà risplende e si diffonde, ed è mantenuto e simbolicamente rappresentato dagli spostamenti liberi sul territorio privo di organizzazioni di potere accentratrici come le poleis attiche, e con santuari dispersi nelle campagne e nelle varie contrade, in cui si incardinano i culti che sostengono l’ethos e la spiritualità religiosa di quel popolo, in cui ciascun viandante può rispecchiarsi nei principi e valori condivisi. Il legame fra uomo e divinità, fra cielo e terra, appare fortissimo, nel fondare culti in cui anche il dio non sta in alto fuori dal mondo degli uomini, ma veglia sulle loro attività, calca costantemente la scena mondana.
Volendo mantenersi sull’onda surrealista di Lévi-Bruhl, ad ogni contatto col mondo delle cose e della natura corrisponde un impasto di affetto e rappresentazione simbolica. E il dio una volta evocato sarà patrimonio immateriale di tutti gli uomini. Ognuno potrà invocarlo e ne potrà osservare il culto con una forma personale di devozione, e con l’esito di un’incarnazione soggettiva, in se stessi, che fonde il proprio sé coi valori protetti dal dio, un dio prossimo e con cui si comunica.
Più precisamente, se questa è la visione antropologico-culturale, sul piano psicoanalitico invece, rispetto a questo stesso materiale etnografico, si può ipotizzare una serie di passaggi che attraverso processi di incorporazione, introiezione e identificazione, legano col soggetto e il suo processo costitutivo i luoghi, intendendo per luoghi anche ciò che si radica o vive o si trova in essi, e questi stessi: pianure, monti, acque, mari, e naturalmente ciò che di psichico su di essi aleggia, e il nomos e il divino. Un immaginario di enorme potenza si attiva a partire dal rispecchiamento in qualcosa del luogo, che colpisce in particolar modo e forgia il soggetto percipiente che sta su quella scena, e singolarizza in un vivente, nella sua parte immateriale, il respiro cosmico del mito. Può essere il nume che protegge ad esempio i pascoli e la giustizia su di essi come l’ubiquitario e grande Pan, ma anche il monte o i fiumi e il mare, di cui si sente parte e signore, e insieme devoto perché questi stessi elementi sono sacri, insieme alle creature che li abitano ( e ai canti dedicati): ninfe, driadi, oreadi, ondine. Ognuna di tutte queste cose rappresenta un punto di rispecchiamento per la fondazione immaginaria del soggetto. Solo in seguito lo stesso paesaggio mondano, le stesse presenze che vi aleggiano diventeranno oggetto di attaccamento, e rivestiranno un’importanza ideologica o politica, o specificamente religiosa.
Se, inoltre, il divino non può accogliere in sé i contrari mantenendoli come tali, esso però rappresenta col suo carattere allogeno una parete di rifrangenza perché il soggetto si formi nello stesso momento in cui la differenza si afferma ed è percepita come alterità. Mentre la differenza fra “fratelli” del collettivo si afferma nella compresenza di contrari che restano tali, perché ciascun soggetto, in quanto significante, si differenzia da ogni altro, e perché inoltre ciascun soggetto riafferma e reclama la sua appartenenza al gruppo, la sua umanità.
Conviene osservare subito che non solo i grandi paesaggi, le grandi distese d’acqua o terra, ma anche i più minuti dettagli, un nascondiglio di caccia, la finestra della casa, il ricovero degli animali, una porta, uno scorcio di cielo fra le case o gli alberi, partecipano al processo di costruzione del soggetto individuale e del soggetto gruppale, con tutti gli istituti mitici, culturali e normativi del gruppo. Come scrive Williams nel suo poema, che citerò più avanti: ”no ideas but in things”, “solo nelle cose le idee”.
La comunicazione
La comunicazione, che nello sviluppo di quest’analisi succede alle incorporazioni, modo arcaico dell’interiorizzazione e dell’identificazione), è la chiave di volta del sistema. Qualcosa del dio, del luogo del culto, del mito, dei luoghi e dei loro elementi e viventi, è in un primo momento messo in comune con ciascuno, creando un rapporto di incorporazione che nasce da una base materiale che si irradia dal corpo come voce e parola e crea prossimità e legame, unisce e può essere, oltre che sentita, detta nel linguaggio.
Lo scambio avviene continuativamente in tutte le direzioni.
Uno dei simboli, ma anche una sorgente, della comunicazione, è la figura femminile, che trova la sua massima espressione, nelle antiche civiltà mediterranee, nelle Potnie minoiche, icone di fertilità e dominio sul labirinto e il mondo animale, e nel mondo cristiano nella Madonna. Il principio femminile mette a disposizione di tutti qualcosa di sé, una parte di sé si effonde e circola radiosamente. Scrive Hart Crane (2017) in Interludium, poesia ecfrastica che integra scultura e poesia, e si ispira alla statua femminile dedicata dallo scultore Lachaise[4] alla moglie, sua unica musa, esposta all’aperto accanto a una fermata della metro a New York[5]:
[...] until
from sleep forbidden now and wide
partitions in thee — goes
communication and spending new
the cup again wide from thy throat to spend
those streams and slopes untenanted thou
hast known…And blithe
Madonna, natal to thy yielding
still subsist I, wondrous as
from thine open dugs shall still the sun
again round one more fairest day.
Il tema del femminile si fa inoltre, nell’immagine della Madonna come madre, anche il tema dello spazio in cui tutto avviene[6]. Uno spazio animato e fertile, che nutre e produce per l’essere modi di esistenza. Modi che originano in un trascendimento di sé del femminile, che è il modello sulla cui base ogni soggetto trascende se stesso trovando unione con gli altri nel collettivo.
Il rapporto coi luoghi fornisce il supporto esperienziale e la rappresentazione della distanza, del distacco, della nostalgia, e del cercarsi in un viaggio che non è solo terreno né è solo interiore. Le peripezie di Odisseo non smettono di ispirare scrittori e poeti, da James Joyce a William Carlos Willams con Paterson (nella traduzione italiana “Un uomo come una città”). È il tema del viaggio oltremondano di un sé sempre sul bordo dei corpi, che troviamo anche nella Commedia di Dante e nella spaventosa rotazione nel gorgo del Maelstrom nel racconto di Edgar Allan Poe, soglia del non essere oltre la quale finisce il senso.
Al di là della seduzione delle immagini vi è l’idea di uno spazio in cui la psiche inconsapevolmente si estende e si rispecchia incontrando il reale.
La poesia rivela coi suoi modi come gli elementi naturali, i luoghi, siano sorgenti ed espressione di struttura psichica, prototipi di pattern per pensare il rapporto con la propria totalità psicocorporea, e con l’alterità, non umana e umana sia a livello di singoli che di gruppo. L’investimento percettivo e libidico sull’ambiente e il suo rifrangersi dall’esterno sul soggetto percipiente produce specularmente, la consistenza del centro percettivo, cioè del soggetto. La sorgente e il ricevente dei segni linguistici (le parole) si attivano e si formano simultaneamente, e senza che vi sia una precedenza dell’uno o dell’altro versante nel costituirsi.
Per mantenere distinti il discorso socio-antropologico e quello psicoanalitico, le letture inerenti la prima area, dal neoevoluzionismo all’antropologia culturale, aicultural studies e alle ricerche etnografiche sul campo, dobbiamo metterle fra parentesi, e considerarle nel loro insieme come lo sfondo o gli sfondi culturali su cui si proiettano i fattori fondativi e gli snodi forniti dalla speculazione psicoanalitica o di altro genere. Oppure possiamo valorizzarle facendone operatori di conoscenza: come spiegherò fra poco illustrando la mia proposta, potremmo affiancare l’antropologia alla psicoanalisi in una prospettiva complementarista.
Vi è dunque la possibilità di una terza area di indagine, a mio modo di vedere, che fa capo non solo alle persone, come nel testo freudiano, ma dà molta importanza ai luoghi, alla scena mitica e a quel che vi avviene considerando il luogo, la città, come fattori implicati nella costruzione del soggetto umano e del gruppo.
L’ipotesi complementarista. “Un uomo come una città”
Nella prospettiva meta-culturale complementarista suggerita da George Devereux, pur restando in un proprio ambito indipendente, la psicoanalisi e l’antropologia possono entrambe fornire, ciascuna dal suo punto di vista, principi esplicativi sul tema in studio.
A questa prospettiva apporterò una modifica, aggiungendo la prospettiva letteraria, come intesa da Jean-Luc Nancy[7] quando studia il pensiero di Maurice Blanchot, riguardo al mito e al concetto di comunità.
Nella prospettiva di George Devereux il modo di concepire l’attività e la struttura psichica, il mondo, sono culturalmente determinati e perciò sono diversi nelle diverse culture:
il concetto di psichismo umano e quello di cultura sono indissolubilmente collegati, sia dal punto di vista metodologico che da quello funzionale[8].
Nella prospettiva di Jean-Luc Nancy:
“[…] il pensiero blanchottiano della letteratura e quello della comunità sono più che intimamente intrecciati: forse sono essenzialmente lo stesso se è vero che non c’è […] se non su un registro mitico e se è vero che non esiste un pensiero del comune (comunità, condivisione) che non faccia ricorso a questo stesso registro. ” (Nancy 2016, p. 100)
Nancy chiarisce rispetto al mito che esso va pensato in due modi : il «metafisico», il quale «evocherebbe un mito fondatore e chiarificatore, che espone dei principi, un’origine, che rivela uno spazio sovrano»; e il «fisico». Quest’ultimo «esporrebbe (e offrirebbe alla “vista fisica folgorante”) una presenza la cui “magnificenza” avrebbe il valore di una rappresentazione dell’ignoto. Un mito che non renderebbe ragione né svelerebbe un’origine senza probabilmente venir meno alla virtù di “fondare” [ ] o di essere al fondo. Il secondo mito sarebbe come la diserzione dal primo — un “mito dell’assenza di mito [ ]. Ma una diserzione che custodisce e e conduce con sé il cuore (o la legge) del mito: la comunicazione di un immemorabile e l’efficacia di una finzione»[9].
Alla base del mito è l’immemorabile, «ciò di cui non si può sapere se l’evento si sia prodotto ma la cui sopravvivenza in una figura (Afrodite, Cristo, ad esempio) comunica un senso concreto, che possiamo definire mitico. Mito è la parola il cui soggetto non è altro che se stesso e si configura parlando di sé: sua sponte e de seipsa» [ ]. Né episodio narrativo, né inclinazione soggettiva, né “racconto”, né “dottrina”, il mito definisce la necessità della letteratura in quanto esposizione dell’immemorabile : ciò di cui non si può parlare ma che parla di sé e in cui il “sé” è iniziale in ogni istante»[10].
Se ci rivolgiamo per un attimo ai versi prima citati di Hart Crane nella sua poesia Interludium, possiamo meglio comprendere quelli e la seguente proposizione di Nancy: «La natura mitica del testo letterario attiene dunque a ciò che non lascia separare il “reale” dall’”immaginario” così come viene detto per finire della morte attraverso cui l’uomo avrà “completato il destino terrestre” della donna: inaugurando un destino celeste in cui si gioca proprio la sua verità di donna e di corpo mitico o mistico»[11]
Il concetto chiave che assumerò è quello di città.
La città come luogo che genera, come archi-significante, terreno e specchio della sincrona costruzione intrapsichica e sociale del mondo, e in esso del soggetto, dei soggetti e del collettivo. La città si pone come alter ego del soggetto e anch’essa, allo stesso modo del soggetto, come una forma che è oltre le forme. Di conseguenza città e soggetto si correlano a luoghi, cose, individui, senza coincidere con essi in quanto ciascuno è forma oltre le forme.
Un mondo, il reale, e il linguaggio, preesistono al mondo e alla sua rappresentazione. Quel che accade dopo è che qualcosa, la parola poetica “illumina” e fa esistere, rende visibili e dà vita a cose immateriali, che da quelle materiali procedono, o alle quali comunque sono in qualche modo legate.
Leggiamo nel Cantico delle creature :
Laudato sie mi’ Signore, cum tucte le
tue creature,
spetialmente messor lo
frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi
per lui. Et ellu è bellu e radiante cum
grande splendore, de te, Altissimo,
porta significatione.
E il frate focu francescano è la notte che genera luce e la getta nel cosmo in attesa di essere liberato per parti dal buio, e di esistere.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte, et ello
è bello et iocundo et robustoso et forte.
La poesia, il mito, danno credibilità e verosimiglianza espressiva al loro dire e risvegliano, come nella fiaba il bacio del principe risveglia Biancaneve, e quindi danno immagine ed esistenza alle cose e persone.
La città mitopoietica. Mitografia della città.
Nel mondo d’oggi, pensando alla città come elemento mitopoietico e a sua volta oggetto di narrazione epica e mitologica, e come mito essa stessa tout court, anche in essa coglieremo, con lo sguardo di Louis Aragon (1926) in Le paysan de Paris, la suggestione che si irradia dai luoghi verso il soggetto che in essi nasce e si avventura: i misteriosi giardini rappresentano il grande bosco urbano ove si proietta il mistero, l’inconnu. Dalla sua iscrizione nell’inconscio deriva il racconto poetico di Aragon, che è mito della città e della sua origine.
Come osserva Nancy il poeta “facendo parlare il suo inconscio è all’inconscio di tutti che ha dato la parola, una parola che è quindi fin dall’inizio singolare e plurale, comunicazione di tutti con tutti come condivisione del comune”.
L’inconscio, che si estende nel dedalo dei vicoli e nelle piazze improvvise, la luce dei lampioni a gas, costituiscono così altrettanti momenti di scambio fra soggetto e ambiente.
In continuità con questo modo di intendere troviamo Walter Benjamin che, nel proporre come prototipo di metropoli per l’occidente e il mondo, la Parigi sorta nei primi decenni dell’Ottocento nell’epoca del trionfo del ferro e del vetro, coi suoi passages, offre allo sguardo del flâneur, che sia Baudelaire o lo stesso Benjamin, tutta l’epopea seducente della modernità coi suoi ritrovati e le sue novità: la folla, la velocità, la moda, che mostra il potere di fascinazione e l’erotismo dei corpi e degli abiti che li rivestono, l’ebbrezza dei congegni meccanici pensati per il divertimento, come le giostre, l’esotico che a sorpresa compare fra i negozi ripieni di dovizie domestiche nel caldo luccichio dei passages.
Se l’interpretazione di Lévy-Bruhl delle civiltà tradizionali è surrealista, in qualche modo simile è l’approccio di Walter Benjamin nel delineare la visione della città che si apre coi passages di Parigi. Il suo metodo richiede di interpretare come un sogno quel che accade nella farsi di quella grande città, nel suo diventare l’ombelico del mondo occidentale. Un enigma, dunque, un punto di inabissamento coincidente con quel che genera e mostra al mondo. Al sogno nell’analisi di Benjamin si correla il risveglio e la visione del presente come la realtà cui si riferisce quel sogno, nello stato di veglia[12].
È nel desiderio di creare un mito delle origini per un popolo che non lo ha, e con un metodo non lontano da quello di Benjamin, che William Carlos Wiliams, nell’America dei primi decenni del Novecento, scrive in dieci anni il suo poema Paterson, in cui si alternano prosa e poesia in versi in una forma letteraria e con un linguaggio semplice e diretto che è il manifesto letterario di una sognata nuova e originale America.
Il poeta Williams Carlos Williams, medico pediatra con base a Paterson, nel New Jersey, a breve distanza da New York, ebbe modo di intrecciare qui la produzione letteraria con una fitta pratica professionale dedicata ai bambini della classe operaia, alle cui sorti non fu mai indifferente. Come tutti gli americani di allora, Williams si trovava in un Paese privo di un canto poetico delle proprie origini, di una propria cosmogonia, e quindi proteso ad affermare una propria originalità, e una differenza rispetto alla potenza coloniale, la Gran Bretagna, che doveva essere rilevabile sia nella lingua, malgrado nascesse sullo stesso ceppo, che nell’etica, nella visione del mondo. Si voleva fondare una società nuova, dar voce a un popolo giovane con il suo american idiom della vita di tutti i giorni, diverso dall’inglese classico, e che diventava base di poesia, in un Paese nuovo su una terra vergine e ricca. Dopo quasi due secoli dall’indipendenza formale aspirava ora ad affermarsi non solo sul piano materiale dell’amministrazione autonoma dei beni, ma sul piano simbolico, nella costruzione di immagini di sé e di valori, di un senso nuovo e diverso della sua storia di riscatto post-coloniale. Non poteva bastare il riferimento ai Padri puritani del Mayflower, né alla letteratura intesa come olimpo di dei autoctoni, come Hawthorne e Melville, ma lontani e riservati all’upper class. Secondo Williams, che si collocò sulla scia dell’insegnamento di Walt Whitman, e ispirò e incoraggiò generazioni di giovani poeti nella fase che seguì l’imagismo nella poesia americana, da Hart Crane fino ad Allen Ginsberg, bisognava che una forma d’arte, in particolare la poesia, si mettesse direttamente in gioco e all’opera, fornendo la fondazione mitica che mancava. Solo da questo poteva provenire una vera autonomia anche dei modi per farsi e pensarsi nuova società e nuovi soggetti nella propria intimità, nella sfera pubblica, nella politica.
L’idea che riceviamo da Williams in “Un uomo come una città”, è che il racconto mitologico della vita umana e non umana, associata e individuale, e i luoghi in cui tutto ciò che è narrato si svolge, sia ciò da cui procede la storia di ogni gruppo sociale e di ogni singolo soggetto, di ogni singola creatura, di ogni singolo vivente o cosa inanimata verso la soglia di senso in cui si svolge la vita. Quel canto unisce in un quadro d’insieme immaginario acque, colline, distese d’erba, insetti e alberi, fabbriche, uomini e donne, aria e cieli. Il linguaggio, nel canto mitico, come nell’antichissima Arcadia, apre la soglie del senso che dà essere al soggetto e al gruppo. Anche Nancy sottolinea il rapporto della massa con un’origine ancestrale (“una massa “è co-originaria alla figurazione stessa di un’origine ancestrale”), e ritiene che il gruppo “si identifica con un’identità non identificabile. La massa o il collettivo è ciò che si cerca o si progetta un’identità. Ciò che è in attesa o in richiesta di identità, cioè di Selbst, di se stesso, perché il sé è ciò che è oscuramente, confusamente percepito come inerente all’esistenza di qualsiasi cosa”[13].
Il linguaggio è la tenebra fatta luce, è donazione di senso, di forma e significato a individui e masse, e ai loro affetti e legami. La lingua incarnata è il parlessere di Lacan, che dall’inconscio di ciascuno e dalle sue esteriorizzazioni immaginarie e simboliche nella città e nella sua natura risuona nella voce, nei corpi, nell’aria che corre nel mondo lungo i fiumi, lungo le cascate del fiume Passaic cantato da Williams (un nome che ricorda il panta rei di Eraclito).
Nel parlessere si esprimono il soggetto, i corpi, e l’anima mundi.
Nella sua prefazione al poema Williams scrive:
Yet there is
no return: rolling up out of caos,
a nine months wonder, the city
the man, an identity—it can’t be
otherwise—an
interpenetration, both ways.Rolling
up! obverse, riverse;
the drunk the sober; the illustrious
the gross; one. In ignorance
a certain knowledge and knowledge,
undispersed, its own undoing.
“E tuttavia non c’è
ritorno, addipanandosi dal caos,
miracolo di nove mesi, la città
l’uomo, identici—altrimenti
non può essere—
interpenetranti, nell’una e nell’altra direzione.
Addipanandosi! inverso, rovescio;
gli ebbri e i sobri; gli illustri
i volgari; uno solo. Nell’ignoranza
una certa sapienza e sapienza,
indissipata, il proprio disfarsi.”[14]
Mentre questo è l’inizio del poema:
Paterson lies in the valley under the Passaic Falls
its spent waters forming the outline of his back. He
lies on his right side, head near the thunder
of the waters filino his dreams! Eternally asleep,
his dreams walk about the city when he persiste
incognito. Butterflies sette on his stone ear.
Immortal he neither moves nor rouses and is seldom
seen, though he breathes and the subtleties of his
machinations
drawing their subitanee from the noise of the purino river
anoimate a thosuands automators. Who because they
neither know their sorces nor the silos of their
disappointments walk outside their bodies aimlessly
for the most part,
locked and forato in their desires—unroused.
— say it, no ideas but in things —
[...] A man like a city and a woman like a flower
—who are in love. Two women. Three women.
Innumerable women, each like a flower.
only one man—like a city.
“Paterson giace nella valle sotto le cascate del Passaic
le cui acque smorzate formano il contorno del dorso.
Giace sul fianco destro, la testa accanto al tuono
delle acque di cui gli si empiono i sogni! Eternamente assopito,
i sogni se ne vanno in giro per la città dov’egli sopravvive
in incognito. Farfalle si posano sul suo orecchio di pietra.
Immortale, non si muove né si leva e di rado si vede,
sebbene respiri e sebbene la raffinatezza delle sue trame
che traggono sostanza dal rumore del fiume riversanti
animino mille atomi. I quali poiché non conoscono
né le loro origini né nel sole delle loro delusioni
vanno fuori del corpo senza scopo, per la maggior parte,
chiusi e dimenticati nei loro desideri — non desti.
— Dillo, solo nelle cose le idee —
[…] Un uomo come una città e una donna come un fiore
innamorati. Due donne. Tre donne.
Innumerevoli donne, ciascuna come un fiore.
un uomo soltanto —come una città.” [15]
Nella poesia, che coglie il cuore pulsante dell’esperienza, i luoghi e la città si transustanziano in uomini e donne in veste di semplici abitanti o di eroi, di simboli e di nuovi soggetti. Che dobbiamo considerare come fossero centauri per metà paesaggio, alberi, acque, industrie e case, e per metà umani. E viceversa le persone si trasmutano nei luoghi, nelle care foreste, nella cara città. Le colline sono il simbolo della fecondità, sono il femminile, i corsi d’acqua e le cascate sono lo scorrere del tempo. Il soffio del vento tra gli alberi assume una voce umana e parla a chi sa ascoltare, strade e piazze sono itinerari della mente che si esteriorizza. E parlano anch’essi dritto al cuore o alla mente. La poesia si fa interprete del metamorfismo e dell’abbattimento del confine fra uomo, natura, mondo delle cose inanimate su cui si proietta l’intimità e l’alterità, della ricezione e rielaborazione delle pulsioni.
Anche nella tragedia greca troviamo un’eco della rilevanza dei luoghi di origine e della lingua per il sentimento di sé dei singoli e di un gruppo umano. Medea è barbara, è una maga, non parla greco, perciò è doppiamente esule in Grecia, lontana dalla sua terra, la Colchide, e senza speranza di poter essere accolta da pari in quanto straniera e con un altro idioma. Su di lei gravano tutti i pregiudizi del caso in quanto è una outsider, un’entità che non solo rinforza negli altri il proprio legame di appartenenza, ma la presenta come portatrice di minaccia e sventura.
L’outsider è il capo di un branco (di un’orda) avversa. Essa rappresenta qualcosa di simile a quel che per Achab è Moby Dick. Priva di sentimenti e di caratteri significativi, senza essere individuo né specie, “questa cosa o entità, la Cosa, che accade ed eccede lungo il bordo, lineare e tuttavia molteplice”[16], che H. P. Lovecraft chiama outsider”, citando le sue stesse parole è “brulicante, ribollente, agitata, schiumante, [e] si estende come una malattia infettiva, [un] errore senza nome”.
Quel bordo, quella muraglia, sono l’”anomalo” che il bordo circoscrive definendo il contorno di una molteplicità e questa stessa.
E ancora su questa base possiamo complicare quel concetto di bordo pensandolo come una posizione del potere, che viene ad occupare un capo della muta, o come un luogo del potere, dove troviamo lo stregone: “gli stregoni hanno sempre occupato la posizione anomala, alla frontiera dei campi o dei boschi. Abitano i confini. Sono ai bordi del villaggio o tra due villaggi. L’importante è la loro affinità con l’alleanza, con il patto che conferisce loro un patto opposto a quello della filiazione”[17]: non discendenza nella specie, non eredità, ma moltiplicazione per epidemia o per altre abominevoli procreazioni.
La Cosa godente allora, in una nuova visione, estenderebbe il terreno della sua presa e l’uomo non sarebbe il suo unico oggetto e interlocutore.
In I Sette contro Tebe, nel Parodo, le fanciulle irrompono urlando terrorizzate nell’orchestra, avendo visto avvicinarsi le schiere nemiche [18]:
Grido di paura, eco d’immense sventure!
Si scatena l’esercito, lasciato il suo campo;
rotola, eccola, innanzi la marea dei cavalieri
— s’addensa nell’aria la polvere a darmene prova,
messaggero muto, ma certo e veritiero.
Invase il suolo della mia patria, il fragore degli zoccoli
s’avvicina, vola,
scroscia come torrente
che batte senza contrasto il fianco dei monti.
Ohi ohi, dei e dee, stornate la bufera che s’addensa!
Valica i bastioni,
l’ondata dei bianchi pavesi
procede spiegata sulla città.
E più avanti, in Str. III, leggiamo quest’invocazione agli dei [19]:
Non consegnate la città tempestata dalle aste
a una turba di lingua straniera
Ad essere coinvolti nell’identificazione sono “il fianco dei monti” (che ad esempio nel poema Paterson di Williams rappresentano la fecondità, un principio femminile), i “bianchi pavesi”, la “città”, la “lingua”.
L’accento in questa cornice letteraria non va posto a mio parere sui concetti di madre, origini, città, intesi come “patria”. La presenza di questo termine nei versi riportati consente di precisare che esso riveste un significato sociale e politico che viene dopo il momento fondativo, a una distanza sufficiente a creare l’idea e l’affetto correlati. La patria, il sacro suolo, sono concetti e valori condivisi che dal punto di vista della psicoanalisi ricadono nell’area della sublimazione, più che dell’identificazione.
Il momento aurorale che ci interessa studiare, quello appunto del venire alla luce del soggetto, dei soggetti, e del collettivo (da considerare sempre in quest’ordine e in quello inverso) su questa stessa base, non possiede quel concetto, ma si impernia sull’emergere di qualcosa da un magma indistinto, o ancor meglio da un nulla, corrispondente all’abisso che precede ogni Arché. Questo qualcosa è la massa da cui si distacca il soggetto, o a dir meglio ancora è il sistema massa/soggetto[20].
Saranno la poesia e il mito a introdurre, al posto della massa indistinta, a partire dalle identificazioni, i concetti di tutti e non tutti, che saranno fra gli altri oggetto di riflessione per Lacan, per significare i processi di differenziazione e individuazione che si generano col canto dell’eroe che narra la proprie gesta, aprendo la strada alla comparsa del soggetto, che non è questo o quello, ma il soggetto dell’inconscio, la Cosa, il suo rappresentante linguistico. In questa cornice di semantizzazione dell’inconscio l’accento va messo, come dicevo, piuttosto sul torrente che batte senza contrasto il fianco dei monti, e che è un momento epico che parla della complessa architettura reale e simbolica del mondo che c’era, che chiama in causa il soggetto prima ancora di far presagire la sua fine.
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Williams, C. W. (1946-1958) Paterson. Tr. it di A. Rizzardi, Un uomo come una città (Milano: Accademia, 1972).
[1] Nancy (2021).
[2] Nancy (1992).
[3] Lévy-Bruhl (1922).
[4] Gaston Lachaise (Parigi, 1882 – New York, 1935), scultore formatosi a Parigi, risiedette a New York dal 1906 fino alla morte, ottenendo un grande successo.
[5] « …finché/da partizioni in te ora proibite dal sonno e/ampie—non vada/comunicando e accelerando di nuovo la coppa lontano dalla tua gola per elargire/quei flussi e declivi inabitati che tu/hai conosciuto…E gioiosa/Madonna, nato dal tuo donare/ancora io rimango, splendido come/ ancora una volta il sole dai tuoi seni aperti/di nuovo circonderà un giorno più giusto». H. Crane (2017), Interludium, in “Key West e altre poesie”, traduzione mia.
[6] Si veda al riguardo quanto scrive Nancy nel suo articolo “Nostalgia del padre”: “La nostalgia del Padre – la sua inanità come la sua tenacia – sarà alla fine ciò che comanda questo doppio e interminabile movimento, di cui la Madre, d’altra parte, apparirà come lo spazio in cui si svolge”.
[7] Farò riferimento in particolare a Nancy (2014-2016) “La comunità sconfessata”.
[8] Devereux (2007, p. 300).
[9] Nancy, op. cit. pp. 100-101.
[10] Cit., p. 101.
[11] Cit., p. 101.
[12] Si veda in Benjamin (1982), I «passages» di Parigi, Introduzione di Rolf Tiedemann, p. XVII: Benjamin definiva «il nuovo metodi dialettico della scienza storica: attraversare il già stato come il mondo della veglia al quale il sogno si riferisce». E inoltre, a p. XIV, osserva Tiedemann: «questa applicazione del modello onirico al XIX secolo doveva togliere all’epoca i carature di compiutezza, di un passato concluso una volta per tutte, di ciò che è, letteralmente, divenuto storia».
[13] Entrambe le citazioni sono tratte da J.-L. Nancy (2021).
[14]W. Carlos Williams (1972).
[15] Ibid.
[16]Deleuze, G. & Guattari, F., Mille Piani, p. 304.
[17]Deleuze, G. & Guattari, F., Mille Piani, p. 305.
[18] Eschilo, I Sette contro Tebe, (1999) tr.it. di Carlo Carena (Torino, Einaudi).
[19] Ibid.
[20] Per un approfondimento sui rapporti fra le polarità del suddetto sistema, si veda il mio articolo (Pascarelli 2021).