Accogliere Jean-Luc Nancy
Nel 1977 proposi a un editore italiano, Astrolabio, di tradurre e introdurre il libro di due giovani filosofi francesi del tutto sconosciuti, Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy. Il libro era Il titolo della lettera e verteva su uno degli Scritti di Jacques Lacan. La traduzione fu pubblicata[1].
Fu la prima traduzione in italiano di un libro di Lacoue-Labarthe e Nancy.
Avrei poi conosciuto personalmente il primo perché seguii suoi bellissimi seminari su Hölderlin a Strasburgo, città dove andavo spesso tra 1977 e 1978, per amore.
Quando, negli anni 1990, dissi ad amici francesi di voler incontrare Nancy per registrare con lui delle conversazioni filosofiche per la RAI (televisione italiana), mi si disse che dovevo affrettarmi, perché Nancy aveva un piede nella fossa. Nel 1992 aveva subito un trapianto di cuore ed era molto malandato. Quando lo incontrai invece a casa sua a Strasburgo, nel 2001, aveva un’aria un po’ malinconica – l’aveva sempre avuta, mi si disse – ma sembrava in buona forma. E difatti sarebbe sopravvissuto fino all’agosto del 2021, sempre attivo, prolifico, instancabile, spesso caustico. Bella vita ricca per uno che è sopravvissuto per circa trent’anni al proprio cuore. Ciò non toglie che io abbia sempre associato a Jean-Luc come un’ombra di morte, ombra che sfugge a ogni concettualità, come se tutta la sua opera fosse un fading. In questa dissolvenza colpiva la sua attenzione al corpo, non solo al Leib, al corpo che soffre e gode, ma al Körper, al corpo fisico, alla “vecchia carcassa” che esso nel fondo è, soprattutto quando è una carcassa malata, a cui poi viene aggiunto un cuore estratto da un’africana morta in un incidente.
Quando lo intervistai per la televisione – assieme al suo gemello filosofico, Philippe Lacoue-Labarthe – egli scelse come tema “la decostruzione del cristianesimo”. Ma anche dopo quest’intervista volle tornare sull’argomento, come se fosse insoddisfatto di quel che aveva detto, sviluppando con me un amichevole dibattito che pubblicammo via via[2] in varie lingue.
Qualche anno fa, sull’onda del piacere di quel dibattito, gli proposi altre conversazioni filosofiche, e lui mi rilanciò sempre lo stesso tema: i monoteismi, la religione. Anche un anno fa, in piena pandemia, mi chiese di aprire un dibattito sul sacro, che in parte abbiamo portato drammaticamente avanti… Drammaticamente perché slittammo verso l’attualità, e io davo una lettura molto diversa dalla sua sul senso della pandemia… Eppure Nancy si è occupato di molte altre cose: della politica, di Hegel, di Heidegger, dell’arte, di Lacan e della psicoanalisi, dell’antisemitismo, del corpo… Ma a me proponeva sempre quel tema, pur non essendomi io mai occupato in precedenza di religione. Si vede che gli ispiravo qualcosa di “religioso”. Forse trovava quel tema particolarmente ostico e ostinato, e forse leggeva in me, uno senza fissa dimora filosofica, homeless del pensiero, la persona adatta per parlare di qualcosa, la religione, che doveva apparirgli come intruso.
L’intruso è il titolo che ha dato al suo libro sulla propria esperienza di trapiantato di cuore. Ed è forse una chiave per capire che cosa Nancy volesse dare, ancor più che dire. Dire, scrivere, è un atto, quello di donare.
Per riassumere il fondo dell’opera che Nancy ci ha donato voglio riandare alla bella conversazione che avemmo nel 2004 sulla scia della scomparsa del filosofo vivente che più lo aveva marcato, di dieci anni più anziano di lui, Jacques Derrida[3]. Credo che il modo in cui lui situi Derrida suggerisca anche il modo in cui va situato l’humus del suo pensiero.
Qui dice che il pensiero contemporaneo è marcato irreversibilmente da alcuni autori: Heidegger, Wittgenstein, Freud e Bataille – a cui aggiungere Derrida. Lista singolare, dato che di alcuni di questi Nancy si è occupato ben poco. Ma che cosa accomuna questi pensatori per molti versi così diversi? Perché, se si vuol pensare oggi in modo non regressivo, non restaurativo di vecchie metafisiche, e senza rassegnarsi all’orto tutto lindo, potato e asettico della cosiddetta “filosofia analitica” (il tipo di filosofia che sta dominando sempre più il mondo accademico euro-americano), bisogna passare per il setaccio di questi cinque pensatori?
Credo che l’Heidegger decisivo per lui fosse quello che annuncia la fine della filosofia come costruzione di Weltanschauungen, visioni del mondo. Non solo il compito della filosofia non può essere più quello di darci una visione globale e coerente del mondo, ma non può essere nemmeno quello di fondare delle visioni storiche, politiche, etiche, scientifiche… La filosofia non fonda nulla perché non ha un terreno solido, stabile in cui gettare fondamenta. Significa quindi che dobbiamo vivere senza visioni del mondo, sballottolati da un effimero impressionismo delle idee? Certo che no. Eppure Heidegger non dà risposta.
Io direi comunque che oggi le visioni del mondo interessanti tendono a essere date unicamente dalla scienza. Heidegger considera la scienza e la tecnologia moderne il trionfo della tradizione metafisica, per cui quella funzione fondativa che un tempo era riservata al filosofo, oggi è la scienza a svolgerla. La metafisica, oggi, va lasciata alla fisica. Insomma, occorre che la filosofia non pretenda più di legittimare il successo – scientifico, estetico, etico-politico. Piuttosto deve spiegarsi il successo.
La filosofia ha un altro compito, deve dare dell’altro.
E Nancy è tra quelli che ha cercato di assegnare alla filosofia un nuovo compito post-metafisico.
Wittgenstein inaugura quella che è stata chiamata “svolta linguistica”, la quale non è solo all’origine della filosofia detta analitica – a cui si contrapporrebbe una “filosofia continentale”, franco-germanica e in parte italiana, in cui Nancy andrebbe incasellato. La svolta linguistica caratterizza anche quel filone di pensiero che trovò nella Francia a cavallo degli anni 1960-70 il suo maggior vivaio, filone che poi gli americani hanno chiamato post-strutturalismo(termine ignoto ai francesi, però). La svolta linguistica consiste nel ricordare alla filosofia che essa si fa col linguaggio, in particolare col linguaggio proposizionale. E il linguaggio permette solo di stabilire relazioni, esso è relativista, il linguaggio è incapace di dire l’assoluto. Per esempio, il linguaggio è incapace di rappresentare la nostra esperienza privata, e le nostre scelte etiche. Eppure il filosofo cerca l’assoluto (absolutus, sciolto da ogni relazione) usando uno strumento relativo, che lega e non scioglie mai.
Il Freud che interessava Nancy era certamente quello che dice “l’io non è padrone in casa propria”. La pratica dell’inconscio spezza le gambe alla grande ambizione della fenomenologia (Husserl, Merleau-Ponty), quella cioè di fondare un sapere non relativo sull’unità e la padronanza di un’operazione trascendentale, sull’intenzionalità della coscienza a cui l’essenziale si rivela. Freud ci dice che il soggetto cosciente invece non fonda nulla, non può essere garante di nulla, perché il soggetto stesso è terreno di conflitti e di differenze, non è l’ovile materno primario e finale da cui possiamo attingere la verità del nostro essere-nel-mondo.
Quanto a Bataille, egli, a partire da Nietzsche, sviluppa una critica dionisiaca della società contemporanea. Prima la filosofia aveva costruito un’immagine dell’umanità in cui la hybris, l’eccesso, svolgeva un ruolo marginale o patologico, da qui le teorie moderne del soggetto come calcolatore utilitarista, homo oeconomicus, ente razionale e bene adattato che cerca di massimizzare confort e piaceri. A questa idea di Homo equilibrato il pensiero dionisiaco ha opposto la dimensione eccessiva dell’umano, che Bataille chiama sacro, oppure ebbrezza e follia, oppure sovranità, qualcosa dell’ordine della dépense, dello spreco. Come Freud aveva descritto una soggettività tempestata da pulsioni disfunzionali, così Bataille descrive l’umanità e la società al di là di ogni buona economia dei vantaggi e dei piaceri. Ovvero, l’umanità non va pensata più sul fondo di una logica rassicurante della sopravvivenza e dell’adattamento, ma volta al sacro, all’eccesso, al dis-adattamento.
Nancy stesso dice nella nostra conversazione quel che di Derrida gli sembra essenziale: la différance. Neologismo che unisce différence, differenza, con differimento. Penso che nel fondo la filosofia di Derrida sia tutta una critica della fenomenologia da cui pur proveniva, diciamo che è un’auto-decostruzione della fenomenologia. Una sua kenosis filosofica. La fenomenologia intendeva fondare un nuovo sapere, non scientifico (non analitico), sulla base di un atto originario irriducibile e immediato, l’Erlebnis, che tradurrei con “esperienza avventurosa”. E’ proprio questo “zoccolo” avventuroso di ogni fenomenologia che Derrida smonta: la coscienza differisce da se stessa, il fondo su cui poggiare il fondamento di un sapere non esiste perché il fondo è a sua volta differenza. Wittgenstein ci ha ricordato che la filosofia è prigioniera del linguaggio proposizionale, Derrida ci ricorda che essa è una forma di scrittura. La filosofia non è la base su cui costruire un nuovo sapere rigoroso da contrapporre al relativismo delle scienze, su cui costruire valori politici o etici, legittimare certe forme d’arte piuttosto che altre, o certe teorie scientifiche piuttosto che altre… Husserl diceva che il filosofo è il funzionario dell’umanità, mentre ormai il filosofo si sente un dis-funzionario. La filosofia ora non costruisce ma decostruisce le “filosofie” implicite, non dette, che sono alla base dei nostri valori, preferenze estetiche, verità scientifiche… Come ai suoi inizi socratici, quando Socrate andava in giro per la città a rompere le uova nel paniere ai potenti e sapienti della propria epoca, la filosofia analizza, ovvero distrugge. Non fonda, sfonda “le filosofie” di cui è impregnata la nostra vita. Perché le nostre pratiche sociali sono tutte inzuppate di impliciti filosofici.
Insomma, per Nancy la nostra epoca è caratterizzata dalla “constatazione del crollo delle rappresentazioni di Principi, Origini, Valori e Sensi, e pensiero risoluto a prendere atto di questa constatazione”.
E’ sullo sfondo di questi cinque setacciatori, senza i quali la modernità, e non solo quella filosofica, non è comprensibile, che Nancy elabora il suo percorso. Non costruendo un sistema, ma declinando certi temi in modi soggettivi. E offrendo l’unicità del proprio stile. Da qui il valore letterario delle sue opere, del resto egli veniva dall’arte, da giovane aveva fatto l’attore. La scrittura filosofica non è solo argomentazione, è anche testimonianza di uno stile, quello personale del filosofo. E in effetti la qualità letteraria delle opere di Nancy gli ha assicurato un pubblico che va ben oltre lo specialismo filosofico. Ho potuto constatare che Nancy veniva letto e gustato da persone senza alcuna particolare formazione filosofica.
Eppure, diceva Heidegger, un vero filosofo pensa un solo e unico pensiero. Anche quando non lo sa. Credo che il pensiero unico, originale, di Nancy sia proprio sul corpo. Non solo il corpo come Leib, ma soprattutto il corpo come Körper. Ciò che Nancy ha cercato di darci è la possibilità, per il linguaggio filosofico, di farci toccare il corpo. Non a caso Derrida ha dedicato all’amico un libro che si chiama Toccare, Jean-Luc Nancy. Il senso dell’opera di Nancy è tattile: la filosofia non è per rappresentare e dire, ma per toccare il reale. La sua scrittura doveva spezzare quel Noli me tangere che la filosofia ha imposto a se stessa per tanto tempo.
Andrei oltre: Nancy appartiene a un’epoca in cui il filosofo accarezza il reale. Non è la mano aperta che si chiude a pugno nel concetto, Begriff, in un’afferramento da cui il concetto non scappa. Non è la mano agitata come un pugno chiuso da sferrare per cambiare il mondo, dopo averlo interpretato. Non è il tenersi per mano, la-mano-nella-mano per fare catena, immagine del solidarismo pragmatista, dell’essere-con, dove una mano conta solo perché afferra un’altra mano… La mano di Nancy sembra sfiorare i propri soggetti, accarezzarli appunto, senza manipolarli, senza afferrarli, senza ghermirli. Toccate e fughe sul corpo.
La fenomenologia ha molto insistito sul superamento della differenza anima/corpo, sul fatto che noi siamo sempre corpo vivente e senziente, che l’anima è sempre embodied, ecc. In Nancy, come nel pensiero sviluppatosi in Francia a partire dagli anni 1960, quel che conta è piuttosto il corpo come allo, come altro. Non “altro” nel senso di eteros (che si oppone a omo), altro nel senso di allo come opposto ad autos, altro come opposto a sé. E’ il corpo esterno rispetto a sé, intruso appunto. In questo senso, Nancy riprende la propria esperienza personale di “trapiantato” dandogli un senso filosofico radicale. Ovvero, tutto il nostro corpo è trapiantato.
Così, in Nancy il cuore – che nel nostro linguaggio designa il centro più intimo e vitale – è appunto allo, altro da noi stessi. Al centro di noi stessi, non ci sono gli altri… come vuole una filosofia relazionale oggi prevalente, diciamo “socialista”, secondo cui esistiamo sempre in relazione agli altri. Al centro di noi stessi c’è l’Altro, qualcosa che non ci appartiene, che non è noi stessi. E’ l’intruso, che non è l’ospite, diciamo che è qualcuno o qualcosa che si auto-invita. Ma questo ospite non voluto è il cuore del nostro essere. Parafrasando Freud, potremmo dire che il corpo è il proprio stesso intruso.
Deleuze e Guattari avevano detto (in Cosa è la filosofia?) che la filosofia è soprattutto produzione di concetti. Non so se Nancy abbia commentato questa idea. Secondo me avrebbe detto però che i concetti sono i mezzi della filosofia, non i fini. E quali erano questi fini secondo lui? Direi che erano proprio ciò che si situa in mora rispetto a ogni concetto. E un non-concettualizzabile è proprio il corpo. Questo rompe con la tradizione filosofica, che sin dall’inizio si è concentrata sullo spirito, che è poi anche il pensiero; mentre il corpo è stato per lo più relegato a cosa speciale tra le cose, fatto di natura. Con Nancy il corpus – come dice lui – diventa oggetto centrale della concettualizzazione filosofica. Il corpo è un intruso rispetto alla casa rassicurante della concettualità, ma la concettualità oggi tocca il reale solo nella misura in cui si misura con questo non-concettualizzabile, con questo intruso.
Una preoccupazione certamente non priva di spessore politico. Oggi il nostro problema non è quello di assimilare ciò che ci è affine, non è dire “siamo tutti esseri umani, quindi tutti gli stessi”. Perché parte dell’umanità non vuol essere “eguale a noi”, e ce lo ricorda… esplosivamente. Allora, il grande problema è cosa fare di quell’alterità umana radicale che la storia continuamente ci sbatte in faccia, e che sfida tutti i nostri virtuosi programmi di tolleranza, assimilazione, inclusione. L’escluso che si rifiuta di essere incluso è al cuore della nostra storia, è proprio ciò rispetto a cui la società occidentale, filosofia inclusa, deve misurarsi. E credo che ogni riferimento alla scottante attualità sia superfluo.
Era sorprendente la voglia di Jean-Luc di scrivere, dialogare, confrontarsi. Nel corso di vent’anni abbiamo accumulato una corrispondenza, di cui quasi sempre lui era l’istigatore. Il confronto – talvolta anche polemico – con lui mi ha insegnato molte cose. Ma soprattutto una sua replica mi ha marcato.
Anni fa gli avevo confidato una mia certa perplessità sulla filosofia del XX° secolo, la quale, a mio avviso, era fin troppo affascinata dal vuoto. Pensavo all’essere come Lichtung, radura, in Heidegger. Ma anche al per-sé come nulla di Sartre, ai vuoti di Beckett e Cioran, all’insistenza sul non-senso di Blanchot, alla mancanza come strutturante ogni soggettività di Lacan, alla pura traccia in Derrida… Mi chiedevo se questa passione del vuoto non mascherasse una segreta volontà di sterminio degli enti, un disprezzo del mondo denso che forse non era estraneo ai disastri del “secolo breve”… Non era un mio voler tornare al positivismo, a un mondo tutto e solo positivo in cui non ci sia spazio per la mancanza, la differenza, il negativo, ma sentivo come morbosa questa attrazione del vuoto che ormai era il badge de “l’intellettuale” come tale.
Jean-Luc rispose dicendo che il vuoto ci voleva per far respirare gli enti. La metafora della respirazione mi impressionò. Dopo tutto, ciò che spinge a filosofare è proprio questo bisogno di respirazione, è il desiderio di vedere quello scarto tra gli enti che è la condizione del loro muoversi, slittare, scambiarsi i posti… La filosofia in realtà ha cura degli enti, perciò fornisce loro quell’ossigeno di assenza che permette loro di districarsi, come enti, indipendentemente da noi.
E Nancy ci ha dato tanto ossigeno.
Sergio Benvenuto, 04/09/2021
[1] P. Lacoue-Labarthe e J.-L. Nancy, Il titolo della lettera, Astrolabio, 1981.
[2] “Sul Cristianesimo. Conversazione con Jean-Luc Nancy”, European Journal of Psychoanalysis, 28 novembre 2018, http://www.journal-psychoanalysis.eu/sul-cristianesimo-conversazione-con-jean-luc-nancy/. “Conversazione con Jean-Luc Nancy: I monoteismi e il sacro”, Doppiozero, 27-X-2018, https://www.doppiozero.com/materiali/conversazione-con-jean-luc-nancy-i-monoteismi-e-il-sacro.
”Se il Dio si nasconde: la decostruzione del cristianesimo”, conversazione con Jean-Luc Nancy, Lettera internazionale, 71, 1o trimestre 2002, pp. 23-27.
http://www.giornaledifilosofia.net/public/stampa_pp.php?id=111.
[3] “Derrida, filosofo della differenza. Conversazione tra Jean-Luc Nancy e Sergio Benvenuto”, Lettera Internazionale, 83, 2005, pp. 58-60. https://www.journal-psychoanalysis.eu/subito-dopo-la-scomparsa-di-jacques-derrida-conversazione-di-sergio-benvenuto-con-jean-luc-nancy/