L'incantesimo pulsionale del capo
(Italian version)

Come necessaria e rapida premessa al mio intervento, occorre distinguere il concetto di massa da quello di istituzione, specificando, molto schematicamente, che quest’ultima assorbe il fenomeno mutevole e transitorio della massa.

L’istituzione, cioè, organizza la massa, la stabilizza, le assicura una forma giuridica, politica ed economica, rendendo possibile una sorta di ‘controllo’ del suo problematico carattere originario (la cui descrizione è, a mio avviso, il più prezioso contributo di Freud nel testo che stiamo studiando).

Intendo quindi ragionare esclusivamente sul momento di costituzione della massa primaria (prima, cioè, che essa venga ‘messa in forma’) e, in particolare, sul suo legame con il capo.
Inizierò la mia breve riflessione su Psicologia delle masse e analisi dell’io partendo da una citazione di Freud estratta dal testo in questione: si tratta di un passaggio che conclude il 9° paragrafo, quello dedicato alla pulsione gregaria, passaggio nel quale è presentata una delle tesi, a mio parere, più forti e sconvolgenti dell’intero saggio:

“Ci sentiamo perciò di rettificare l’affermazione di Trotter che l’uomo è un animale che vive in gregge, sostenendo che egli è piuttosto un animale che vive in orda, un essere singolo appartenente a un’orda guidata da un capo supremo” .

Con questa frase perentoria e secca [1] , Freud smonta l’impianto teorico di Trotter, il quale – come lo stesso Freud ricorda – aveva ipotizzato l’originarietà della pulsione gregaria, o meglio, l’esistenza di una spinta ‘naturale’ all’aggregazione, allo stare insieme, al raggiungimento, attraverso una specie di spontanea tendenza alla socializzazione, della condizione di maggiore completezza possibile, che, per l’appunto, solo il raggruppamento e l’unione sarebbero in grado di garantire.
L’inclinazione all’aggregazione – specifica, al contrario, Freud – è concepibile unicamente come effetto del legame di tipo identificatorio che si sviluppa tra uguali (tra pari), legame che, tuttavia, può stabilirsi solo ad una precisa condizione: che il singolo essere umano ‘scelga di consegnarsi’ alla volontà del capo, che accetti, cioè, il dominio esercitato dal padrone assoluto e si sottometta volontariamente al suo potere. Ciò che tiene uniti gli individui tra loro non è, quindi, l’innata ricerca di mutua assistenza e solidarietà, ma la necessità di affidarsi nelle mani di un sovrano: sarà la condivisione dello stesso oggetto d’amore – il capo – a creare, in un tempo successivo, il legame tra pari. In tal senso, la pulsione gregaria non è originaria: essa è la conseguenza della comune adesione di ogni membro della futura massa allo stesso programma di sottomissione; di sottomissione – specifica Freud – ad un Führer, al despota, al tiranno. La conclusione che ne deriva è quella già citata: l’uomo è un animale che vive in orda, bisognoso, cioè, di essere dominato dall’alto, di essere oppresso pur di sentirsi protetto e amato (idea che, in parte, rettifica il mito di Totem e tabù, nel senso che l’uccisione del padre primordiale non segna il superamento definitivo di quella primordiale organizzazione sociale, ma lascia un resto, un ricordo, una specie di nostalgia della perduta soggezione).
A partire da questa rapida premessa, vorrei proporre alcune considerazioni utili a sviluppare la riflessione. Innanzitutto, occorre sottolineare il fatto che il singolo, per appartenere alla massa – così ci spiega Freud – deve rinunciare al proprio Ideale e, per contro, assumere quello collettivo. L’adesione al nuovo Ideale (quello che il capo impone) diventa, del resto, la condizione per entrare a pieno titolo nella massa. In questo senso, la massa esige una sorta di debilità soggettiva, una diminutio intellettiva dei singoli membri, il sacrificio delle proprie capacità di critica. L’Ideale del capo può, così, affermarsi come programma collettivo incontestabile ed esigere da ognuno il contributo necessario alla sua realizzazione. Le tragiche vicende del secolo scorso indicano fino a che punto possano spingersi le conseguenze di una tale attitudine.
Ma come fa un nuovo Ideale ad imporsi con tanta forza? Come può l’individuo abdicare alle proprie facoltà di giudizio e affidarsi ciecamente al capriccio del tiranno? Per tentare di rispondere a questi interrogativi, trovo utile il ricorso ad una straordinaria notazione di Freud su quelle che lui definisce le qualità del capo. Una notazione fondamentale, spesso, tuttavia, trascurata. Dice Freud: il capo per imporsi (e per imporre il nuovo Ideale al quale la massa si conformerà) deve avere due caratteristiche:

  1. Deve mostrare di avere maggiore forza
  2. Deve avere maggiore LIBERTA’ LIBIDICA.

Quest’ultima notazione è davvero di un’importanza straordinaria.

Il capo della futura massa, per essere tale e per essere riconosciuto come tale, deve avere un certo rapporto con il godimento, deve, cioè, mostrare di avere una certa facilità, una certa dimestichezza, un certa proprietà d’accesso alla soddisfazione pulsionale. Questo è un punto fondamentale: non è il sapere la qualità caratterizzante del capo.

O meglio, non è il sapere quale noi generalmente lo intendiamo. La massa – ci dice Freud – è attratta dalla libertà libidica di colui che diverrà il suo dominatore. Il capo, di conseguenza, è colui che – così, per lo meno, è visto dal singolo – ci sa fare con il godimento. Il Führer è, nella sua essenza, un essere pulsionale, un oggetto speciale poiché investito e ‘caricato’ pulsionalmente.

È tale dimestichezza (reale o presunta, poco importa) con il godimento, il suo saperci fare con la pulsione e con la sua soddisfazione, la sua ‘confidenza’ con l’esperienza di appagamento libidico a costituire il suo vero sapere, il sapere che affascina e suggestiona la massa.

Egli, infatti, appare capace di dominare l’irruenza della pulsione, di non farsi soggiogare dalle sue richieste e di piegarle a proprio vantaggio. A questo proposito, occorre evitare di considerare la pulsione come interamente coincidente e sovrapponibile all’ambito sessuale (pur essendo il sessuale una sua componente non secondaria).

Il capo può incarnare l’oggetto sessuale ambito (le considerazioni sull’uso che fa del corpo sono note e ampiamente studiate) ma non è questo il livello al quale dobbiamo ridurre la notazione freudiana.

La pulsione, infatti – come ci insegna Lacan – è innanzitutto un rapporto (speciale) del soggetto con la domanda. Descrive, cioè, il modo in cui il soggetto si posiziona rispetto all’Altro. La scelta dell’oggetto elettivo della pulsione è, per Lacan, una determinante significante del rapporto che l’essere umano intrattiene con l’Altro. La prevalenza di un certo tipo di soddisfazione (orale, anale, ecc.) si materializza, in altri termini, in un certo modo in cui il soggetto stabilisce le relazioni con il mondo. La pulsione (e il modo in cui essa si soddisfa) ‘dice’ del soggetto, lo qualifica, lo caratterizza.

Una certa libertà libidica (dunque, una certa disinvoltura pulsionale) esercita un indubbio potere di fascinazione in quanto segnala la capacità di soddisfarsi (questione sempre molto problematica per il nevrotico). Si ammira del capo questa sua facoltà, la si invidia, la si vorrebbe emulare, la si vorrebbe imitare per contatto diretto. E tanto più affascinante sarà tale qualità del capo, quanto più in modo radicale questa facoltà si manifesterà: e tanto più radicale sarà la sua manifestazione, quanto più in essa emergerà la sua radice più profonda, più rappresentativa, più caratterizzante.

Arriviamo, in questo modo, ad illuminare l’aspetto generalmente in ombra: il saperci fare con la pulsione sarà tanto più affascinante, quanto più in essa si presentificherà la pulsione di morte che si agita al suo interno, ovvero, quanto più sarà in primo piano la spinta regressiva sulla quale si fonda ogni soddisfazione pulsionale. La potenza fascinatoria e carismatica del capo è proporzionale alla sua capacità di incarnare la tragicità ambivalente della pulsione, che, per un verso, assicura una soddisfazione impareggiabile, per l’altro, si accompagna alla eclissi dell’io, alla sua momentanea scomparsa, alla sua temporanea morte. La soddisfazione della pulsione non è, infatti, la soddisfazione dell’io: ça jouit è l’espressione con la quale Lacan designa l’impersonalità della soddisfazione pulsionale. La soddisfazione di un ‘qualcosa’ che reclama nell’inconscio, ma che non coincide con l’esperienza di piacere al quale l’io aspira.

Il concetto di godimento di Lacan esprime bene questa ambivalenza della soddisfazione pulsionale: da un lato, essa è scarica libidica che attiva il sistema, lo vitalizza, lo fa sentir vivo, lo affeziona, lo fissa e lo condanna, quindi, alla ripetizione; dall’altro lato, è svanimento dell’io, esperienza di perdita di controllo, di padronanza, di coscienza, cancellazione della volontà, immersione in un vuoto di pensiero con simultanea prevalenza di fenomeni di corpo.

Dove c’è godimento non c’è l’io. L’assolutismo del godimento – nel senso che, come sostiene Lacan nel Seminario XVI, esso è assoluto, ‘sciolto’, ab-solutus da ogni relazione di senso – è la scena che letteralmente ipnotizza il nevrotico, incantato dalla potenza auto-affermativa di ciò che osserva (o pensa di osservare) nel capo. Il fascino del capo deriva, allora, da questo sembiante di appagamento pulsionale che lo rende invidiabile, dalla maschera libidica che può farlo addirittura oggetto di proiezioni sessuali, dall’immagine di un corpo che si presta ad essere visto come luogo di una soddisfazione senza pari e, di conseguenza, desiderabile: ma a dar potenza a questo sembiante c’è sempre l’assolutismo e l’implacabilità della pulsione di morte che trapela in filigrana in ogni apparente manifestazione di vitalismo, di energicismo, di sbandierata generatività.

La retorica del vitalismo generativo, la nascita e lo sviluppo delle varie epopee del ‘fondatore’, il mito di coloro (politici, studiosi, clerici e, ahimè, anche psicoanalisti) che hanno dato vita a movimenti, gruppi, associazioni, scuole, conventi, partiti improntati sul proprio nome e sulla personalizzazione dell’impegno pubblico, cela il più profondo egocentrismo pulsionale, il più bieco – sebbene camuffato nel suo contrario – godimento nichilistico e distruttivo. Che è esattamente, però, ciò che seduce il nevrotico (il cui fantasma, ricordiamolo, ha sempre connotazioni perverse). Mettersi nelle mani di un capo, affidarsi ciecamente a lui, significa, in sostanza, farsi oggetto del suo godimento e soddisfare così il proprio godimento masochista: affidarsi a chi sa, nell’auspicio di partecipare al godimento dell’orda, di cui il capo si fa padrone incontrastato. È sperare che dalla ricca tavola del despota cadano briciole di godimento da raccogliere sul terreno. L’accettazione di qualunque contenuto ideologico non sarà altro che una conseguenza di tale totale affidamento.

Siamo così giunti all’ultimo punto che vorrei mettere in evidenza. Freud sottolinea in maniera molto chiara come, in quella che lui chiama reviviscenza dell’orda primordiale, il singolo rinunci al proprio modo di essere per soddisfare il bisogno di stare ‘in armonia’ con gli altri, obbedendo al capo e ai suoi ordini. La libido individuale, quindi, attivata originariamente dalla fascinazione per la maggiore libertà libidica del capo, in una sorta di risonanza collettiva che fa vibrare le singole strutture, si estende sui pari, fondando e cementando il legame orizzontale tra simili. Godere insieme diventa un aspetto imprescindibile della massa: non ci si può rifiutare di partecipare al rito del godimento, che richiede, per l’appunto, l’abbandono delle proprie convinzioni. Ecco perché Freud specifica che – e su questo concluderò il mio commento – l’ingresso nella massa comporta una rinuncia alla coscienza morale, ovvero una liberazione dalle inibizioni per entrare di diritto nel cerimoniale ordalico. La massa, in tal senso, agisce in una direzione che è inversa rispetto a quella della Civiltà: come sarà teorizzato alla fine dello stesso decennio, infatti, l’ingresso nella Civiltà esige una rinuncia pulsionale come prezzo da pagare per fare il proprio ingresso nel consorzio umano: rinuncia che genera quel disagio che darà, per l’appunto, il titolo al testo freudiano, scritto tra il 1929 e il 1930.

L’ingresso nella massa, al contrario, come già detto, esige la cessione della propria moralità e promette una possibilità di dare libero accesso a soddisfazioni pulsionali che la Civiltà condanna. In quest’ottica, l’appartenenza alla massa si configura come una possibilità di ‘cura’ di quel disagio della Civiltà considerato il sottofondo storico-culturale di ogni forma di nevrosi. Il che contribuisce, a mio avviso, a spiegare l’estrema facilità con la quale gli individui aderiscono alla massa.

Il fattore libidico che Freud individua in essa non va inteso unicamente come lo sviluppo del legame d’amore verso il capo e i propri simili: a motivare l’estremo e alienante conformismo al quale ognuno drammaticamente si abbandona, vi è la promessa (implicita, il più delle volte, anche se ufficialmente biasimata o addirittura censurata, in alcuni casi) di liberarsi dai vincoli della Civiltà e di accedere a quelle forme di godimento che le regole di convivenza vietano. La massa riproduce l’orda, dunque il suo carattere instabile, mutevole e perturbante che eredita dalla disinibizione pulsionale che la qualifica. Il capo è colui che si fa garante di tale possibilità, sebbene, esattamente come nell’orda primordiale, sia proprio lui a confinare i suoi sottomessi alla periferia della soddisfazione stessa. Ma di questo, i suoi sudditi non vogliono saperne. Incantati dal festino ordalico nel quale si illudono di essere stati accolti, partecipano al rito del godimento di cui essi, tuttavia, costituiscono l’inconsapevole oggetto. L’acclamazione del capo, la sua perenne difesa contro ogni presunto nemico, il sostegno indiscriminato al suo ‘catechismo’ dottrinale sono in fondo l’opportunistica strategia di protezione della propria condizione di eccezione (rispetto alle restrizioni della Civiltà) che l’appartenenza alla massa assicura. Per questa ragione, in conclusione, la massa si presenta come un’orda riconfigurata, nel senso che chi vi aderisce non ambisce alla destituzione del leader ma alla sua incolumità e alla sua più duratura sopravvivenza: solo su un capo forte, infatti, (in ogni accezione del termine, prima fra tutte quella libidica) l’individuo può proiettarsi fantasmaticamente per poter sognare di partecipare al suo (immaginario) banchetto.

Note:

[1] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, OSF, Bollati Boringhieri, Torino ………., p. 309.