Psicologia delle masse.
Un secolo di politiche
dell'inconscio. (Italian version)
Ricorre quest’anno, in un momento di grande difficoltà planetaria per la pandemia da Covid, segnato dal recente riemergere anche in Italia e in Europa, in una sfavorevole congiuntura economica, del populismo e di derive autoritarie come il sovranismo, il centenario di un’opera di Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, che sembra porre le basi per una comprensione dei fenomeni sociali sulla base di una lettura psicoanalitica delle politiche dell’inconscio.
«Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto […] la psicologia individuale è, al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale». Così nota Freud all’inizio del suo saggio (in OSF, Bollati Boringhieri, tr. it. di E.A. Panaitescu, p. 261) Pur non essendovi una rigida contrapposizione fra psicologia individuale e psicologia sociale, quest’ultima tuttavia si applica in senso proprio allo studio di fenomeni diversi, che hanno a che vedere col rapporto fra l’individuo e quelle moltitudini di sconosciuti, che si formano in determinate circostanze, che chiamiamo masse spontanee; oppure fra l’individuo e quelle masse invece che definiamo organizzate e corrispondono essenzialmente all’esercito e alla Chiesa.
Psicologia delle masse e analisi dell’Io affronta queste tematiche in modo innovativo rispetto ad autori coevi come Gustave Le Bon e William McDougall, dopo la Grande Guerra e dopo insurrezioni e repressioni verificatesi in Europa, fra cui la rivolta spartachista di Berlino, negli anni immediatamente successivi, tutti eventi rivelatori delle modifiche indotte nei singoli e nelle società da eventi eccezionali. Freud vi recupera sue opere precedenti: Tre saggi sulla teoria sessuale, Introduzione al narcisismo, Lutto e melanconia, Totem e tabù. Questi testi, rispetto ai fenomeni studiati in Massenpsychologie,forniscono concetti utili a interpretarli, come quelli di ipnosi, innamoramento, identificazione reciproca e di investimenti libidici, di orda primitiva col suo terribile capo: il padre-padrone che lui solo ed esclusivamente possiede tutte le donne, costituendo una polarità narcisistica così feroce e tirannica da rappresentare di per sé una spinta fortissima all’abbandono della sudditanza e alla ricerca di una propria autonomia.
Psicologia delle masse si correla inoltre con altri due testi cruciali coevi: Al di là del principio del piacere (1920) e L’Io e l’Es (1923).
Il primo dei due introduce, accanto alla libido, a Eros che unisce, la pulsione di morte che distrugge i gruppi umani.
L’altro ci illustra come Freud intenda l’Io non solo come istanza psichica, ma anche come sintesi psichica complessiva del soggetto nella sua costitutiva divisione, che si interseca con le altre due istanze psichiche dette fin qui Es e Super-Io, che credo sia bene cominciare a denominare rispettivamente coi termini “Quello” e “Oltre-Io”, secondo la traduzione dal tedesco di “Es” e “Über-Ich” proposta da Sergio Benvenuto in Leggere Freud. Dall’Isteria alla fine dell’analisi (Orthotes, Salerno-Napoli 2017), più rispondente al testo originale e alla necessità sentita da Freud di una continua riattualizzazione della metapsicologia e della terminologia psicoanalitiche.
La concezione freudiana dell’autorità poggia dunque su un evento traumatico immemoriale, l’uccisione del padre, che rivive nel mito di Edipo, e in ognuna delle sue riedizioni inconsce, in cui un’epopea individuale si riafferma, un soggetto si distacca dalla massa e si dice. Con una modalità che ricorda quella del poeta che canta le imprese di un eroe — che alla fine non è altri che il poeta stesso — che si afferma da protagonista nel mondo. Ed è questo gesto poetico che segna la svolta per cui avviene il passaggio dalla massa al singolo soggetto.
Tale autorità passa dall’imposizione al controllo autodiretto interiorizzato su cui poggiano le organizzazioni di massa e burocratiche. Le quali tuttavia possono disporre di, e utilizzare, anche mezzi coercitivi per mantenere la compattezza e la vita dell’istituzione-massa che rappresentano.
L’interiorizzazione, che mostra per il soggetto una possibilità alternativa alla colpa e alla paura della castrazione nel legame erotico, riferito a un amore inibito nella meta (sublimato), avviene sulla base di identificazioni con certi ideali o con figure di leader. Proprio in queste consiste la novità interpretativa, lo specifico psicoanalitico introdotto da Freud rispetto all’imitazione o all’istinto gregario come fattore unificante di cui parlavano Gustave Le Bon e altri autori che disprezzavano “le masse”.
Freud invece, pur registrando talune caratteristiche intrinseche della massa, come il senso di onnipotenza e irresponsabilità che diffonde fra i suoi membri, ne nota altresì l’altruismo e altre grandezze di slancio e creatività. Ma soprattutto vede il rapporto di mutualità fra individuo e massa.
I membri della massa si identificano con il capo interiorizzandolo come il proprio Io Ideale, o mettendolo al posto dell’Ideale dell’Io, in un processo che su linee orizzontali di rapporto affratella, generando legami erotici sublimati. Qui le linee del narcisismo si intersecano con quelle del rapporto d’oggetto.
Ma un’identificazione, che in teoria dovrebbe risolvere la dipendenza dall’esterno, può tradursi invece in una sua perpetuazione? Oppure il problema vero consiste nel contenuto valoriale di quest’identificazione, nell’assunzione interiore di qualcosa di non etico, resa ormai indipendente da ogni referente esterno, e perpetua?
La ricchezza di spunti e prospettive del saggio freudiano, e la sua articolazione con altri saperi e concezioni teoriche, insieme agli ampliamenti d’orizzonte della teoria psicoanalitica e delle scienze umane nel frattempo sopravvenuti, rendono possibili miglioramenti molteplici a integrazione di queste prime osservazioni.
Il saggio apre un nuovo orizzonte rispetto alla visione psicoanalitica della mente, del soggetto, della società, coerente con l’idea freudiana secondo cui “la psiche è estesa, di ciò non sa nulla”.
Il concetto innovativo di Freud è che non c’è un confine rigido e impermeabile della psiche del singolo e del collettivo umano: il gruppo o, nella sua dimensione d’immensità, la massa. Non si tratta qui semplicemente del rapporto fra individui e società intesi come polarità diverse e indipendenti per quanto significativamente correlate, e degli effetti psichici della massa sul singolo (ad esempio esaltazione delle passioni e inibizione del pensiero), ma della sovrapposizione dinamica e più o meno stabile fra aree pertinenti alla mente individuale e aree pertinenti alla mente di gruppo, intese come parti confluenti che fanno sistema psichico unitario con speciali modalità di comunicazione e interazione nel collettivo (dalla lingua all’intuizione, all’empatia, alla suggestione, alla propaganda, fino al dominio esercitato in forme che non sono violente ma suggeriscono la possibilità di diventarlo). Il tutto è molto chiaro quando si analizzi soprattutto il rapporto dell’individuo con i poteri egemoni, e giuridicamente fondati, come quello degli stati rispetto alle loro popolazioni.
Questa prospettiva integrata, di cui cerco di dar conto introduttivamente qui per suggestioni rapide, mette in crisi le certezze di un mondo dato, la stabilità di determinate concezioni metafisiche, e le cristallizzazioni della conoscenza come visioni, ideologie e verità immutabili per dogmatici malintesi, anche sul terreno della metapsicologia. Al posto delle strutture positive, emergono la metamorfosi e il valore della mancanza, al posto dell’identità nucleare affiora il concetto di identità plurali e fluidamente composite, al posto della consistenza strutturale si fanno strada l’instabilità e la divisione costitutiva di certe entità della precedente teorizzazione filosofica e psicoanalitica, e in sostanza della visione del mondo, a partire dalla nozione di soggetto, per continuare con quella di psiche. La particolarità dell’idea di soggetto, inoltre, che da ciò scaturisce, porta a rivisitare psicoanaliticamente anche il concetto stesso di mancanza, che si rivela non più come la cifra ineliminabile dell’esperienza umana, a partire dalla nostalgia inguaribile dell’oggetto a piccolo nella visione di Lacan, ma come un suo dato, peculiare sì, ma non perpetuo, e anzi costitutivamente fluido, se non assolutamente virtuale, in relazione all’assenza di soggettività del soggetto. Un’assenza ancora una volta, ma che crea qualcosa dalla sua essenza negativa, perché un soggetto che è pensato come svuotato e anzi separato dalle esperienze soggettive è un soggetto che ha dell’umano ma non è, nel suo statuto formale, antropomorfo. Esso le esperisce ma non ne viene limitato: è un soggetto simbolico sempre in progresso dinamico, senza patria né genere, senza cicatrici che ritraendosi lo segnino per sempre, che fa sistema con la psiche del singolo e del collettivo fra le quali oscilla e pulsa.
Il soggetto dell’inconscio è autoreferenziale in un certo senso, come la pulsione, con cui è perennemente in tensione, gode di se stesso e del suo fare, diventare. Mentre lo scotto della nostalgia, dell’incompletezza sul piano esistenziale, e della persistenza irrecusabile del trauma della delusione originaria, nascono sul terreno di un desiderio che ha perso il suo rapporto fluido con l’inconscio che sempre ripropone nuove creazioni e possibilità, e si è contaminato delle rappresentazioni consce e ripetitive degli affetti, o si spegne perché l’ombra dell’oggetto perduto si allunga sull’Io, oscurandolo, come accade nella melanconia. Altrettanto problematiche si rivelano per il singolo, ma anche per l’influenza che il singolo può esercitare sulla massa, identificazioni con oggetti idealizzati, investiti di ambivalenza o chiaramente rifiutanti od ostili. Essi generano forme di diniego e di identificazione con l’aggressore, e una coazione a ripetere tesa alla rielaborazione di gravi frustrazioni, e pertanto non autonomizzano, ma tengono legati al trauma e alla sua causa, per tentarne sempre una rielaborazione riparativa.
E forse, inversamente, legano anche alla distruttività narcisistica, magari risolta in distacco autistico. Se un “oggetto”, cioè una persona, ci ha danneggiato, ad esempio abbandonandoci, possiamo negare la perdita chiudendoci in un mondo di fantasie autistoidi del tutto private, o possiamo, dopo averlo incorporato per identificazione, vendicarci attaccandolo entro noi stessi, ma con effetti autolesionistici. Possono ricevere una spiegazione su questa base fenomeni di massa come il settarismo, il culto fanatico di una personalità, o l’attacco a innocenti ma presunti miscredenti e traditori, a transfughi e dissidenti equiparati a capri espiatori.
Un soggetto non ripiegato per sempre nell’ombra della mancanza corrisponde forse, andando da Freud, con il sistema soggetto/collettivo, oltre o di fianco a Lacan, alla visione “macchinica” di Deleuze e Guattari. Essi al concetto di struttura, e di soggetto come suo effetto, sostituiscono la macchina desiderante, l’inconscio creativo, in un orizzonte in cui la struttura è piegata a considerare l’evento imprevisto, che la macchina rielabora. Così scrive al riguardo, in un articolo su Felix Guattari, Rocco Ronchi: «il soggetto non è un fatto, non è un fatto compiuto che si spiega a partire da altri fatti (a partire dalla triangolazione edipica, ad esempio). Il soggetto è un processo (un processo sociale!), il soggetto si fa e non cessa di farsi, e facendosi non cessa di guastarsi: il soggetto è un atto, ed è precario come tutti gli atti, imprevedibile come tutti gli atti. Macchina versus struttura significava introdurre la singolarità, l’evento, il tempo, la genesi, il cambiamento, la creazione, al cuore del soggetto. Significava pensare un desiderio che non è mancanza, che non è ripetizione di uno schema, ma che è generatività, creatività» (Ronchi, R., Félix Guattari: militante rivoluzionario, Doppiozero 31 maggio 2020).
E inoltre viene neutralizzato e ridotto alla sua insignificanza nel discorso metapsicologico il concetto malinteso e abusato di identità. Un concetto con la pretesa di riportare a un’idea di unità e coesione psichica che non è scontata, non ha un corrispettivo nella teoresi psicoanalitica, e, come risulta chiaro se si considerano alcune riflessioni al riguardo, è in filosofia ovviamente alquanto dibattuta e ben lontana dal poter dare certezza di alcunché. Leibniz rinvia alle monadi, e alla questione degli indiscernibili. Per Locke l’identità è legata alla coscienza di sé e la memoria presiede all’integrazione di frammenti. Con il Saggio sull’intelletto umano (1694) Locke segna una svolta nella nostra cultura occidentale, il passaggio dal concetto di anima, una sorta di substrato capace di dare unità e persistenza nel mutare delle cose, a quello di identità personale. Hume parla non di identità ma piuttosto di “fasci di percezioni”, e alla memoria aggiunge l’invenzione, la fantasia, come possibile elemento di aggregazione “identitaria” delle esperienze. Ma sempre, sullo sfondo, vi è l’idea di un perdersi, di un sofferto e faticoso ritrovarsi, in un processo che impegna in perpetuo.
Il concetto di identità oggi invalso in psichiatria e in certa psicoanalisi, con la sua valenza descrittiva psichiatrica rigida, come tratto costante in relazione alla tassonomia e alla diagnostica dei disturbi gravi di personalità, che vorrebbe intenderlo come corrispettivo cristallizzato dell’essere, è ben lontano dal far parte del repertorio concettuale di Freud, che parlò di identità, in rapporto a quella ebraica, in una sola occasione, e sempre ha invece riflettuto sul concetto dinamico e fluido di identificazione.
Il concetto di identità, nella sua essenza definitoria giuridica, è perfettamente ricompreso nel pensiero critico di Pierre Bourdieu quando vengono enumerate le possibilità che solo lo stato ha, coi suoi mezzi, di assegnare ufficialmente le coordinate anagrafiche, ma anche la nazionalità, il genere, lo stato civile, i diritti e i doveri dei singoli cittadini. Fino al culmine paradossale riguardante l’esistenza di coloro che sembrerebbero poter sfuggire all’incasellamento burocratico, visto che non trovano posto nella comunità umana, e invece non vengono privati di una definizione, sia pure in negativo: i “sans-papiers”.
Un’altra direttrice fondamentale, che affianca e supera le visioni filosofiche e le descrizioni letterarie-antropologiche o politiche di Ortega y Gasset “La rivoluzione delle masse) o di Huizinga (La crisi della civiltà) e Canetti (Massa e potere), fornendo loro possibilità esplicative, è quella di una rivisitazione del testo freudiano, che interseca i concetti di habitus e di violenza simbolica elaborati da Pierre Bourdieu, filosofo e sociologo poliedrico affacciato anche su arte e letteratura, nel solco di Emile Durkheim, di Marcel Mauss e di Claude Lévi-Strauss, e nell’eredità di pensiero di autori che vanno da Aristotele a Husserl, Heidegger, Marx, Panofsky, Chomsky e Wittgenstein, come leggiamo nel Dictionnaire International Bourdieu, CHRS EDITIONS, curato da Gisele Sapiro, uscito in novembre 2020, in cui è sistematizzata e articolata l’opera di Bourdieu e sono raccolti gli studi della comunità internazionale su di essa.
Il primo concetto, che meriterebbe una trattazione approfondita tutta per sé, qui impossibile, ha a che vedere, sulla traccia anche di Merleau-Ponty, con l’idea di qualcosa che sedimenta nel corpo ancor prima che nella psiche su pressione del mondo esterno, e in particolare, se vogliamo, della massa. L’habitus porta i significanti e i valori-guida della collettività al cuore stesso dell’individuo, ne modula la postura nello spazio e nella società. L’habitus è un altro modo per rappresentare quell’adesione ai valori comuni di un gruppo sociale che garantisce sicurezza e appartenenza. Esso ci rinvia così al Disagio nella civiltà in ambito psicoanalitico, e ai concetti di prossimità, familiarità, appaesamento, in ambito antropologico.
L’habitus si mostra ed entra in azione attraverso gesti, azioni, disposizioni psicocorporee, modi di percepire sensorialmente e abitare col proprio corpo e la propria affettività e significazione lo spazio fisico e sociale. Questi rappresentano rispettivamente, sul versante delle istituzioni dominanti e del singolo individuo, quel modo di trasmissione della sottomissione che naturalizza il dettato simbolico del potere, e quel patrimonio di abilità che esprimono l’originalità ma anche l’obbedienza e l’adozione come guida, sempre meno avvertita come suo effetto, della voce del padrone: valori in realtà imposti, col tempo sono percepiti soggettivamente come naturali, propri, ovvi, perdendosi la memoria intellettiva della loro origine, che resta tuttavia inscritta nel corpo, memoria senza fine in cui si deposita l’esperienza. Esattamente in questo consiste l’essenza del secondo concetto, quello di violenza simbolica, di un costringimento che si può scambiare per persuasione, che si imprime nei corpi e su di essi, e segna la sessualità, la maternità e la paternità, i rapporti sociali e affettivi, la fantasia e l’amore, ma anche rimarca ingiustizia e discriminazione, inasprendo ed eternizzando iniquità.
Fra l’infinita potenzialità originaria rappresentata dal patrimonio dell’inconscio e i vincoli imposti dalla società e dalle leggi, e dietro ad esse dei poteri egemoni che vi si esprimono, si colloca la possibilità della politica come espressione della ricerca di un bene individuale nel bene pubblico. Vi è spazio per questo oggi, per scelte politiche che non considerano inevitabile la soppressione o riduzione del godimento come condizione per la coesistenza pacifica?
L’analisi di Freud sembra portare a un passaggio difficile, fra la rinuncia alla libera espressione pulsionale in cambio di ordine e sicurezza, e la perdita di sé nell’assoggettamento ai voleri del Leviatano. Ma Freud sembra mostrare, ed è questo uno dei molti aspetti cruciali su cui una rivisitazione a largo raggio del suo testo ci aspettiamo che si soffermi, altre possibilità. Il soggetto è per sua natura, se così si può dire, relativamente immune dall’appiattirsi su particolari oggetti e contenuti intellettivi-emozionali dell’esperienza, nonostante esso possa contemplarli, e nonostante io, e non solo l’Io, possa farli propri, assumerli come guida e ideali. La flessibilità che ne deriva per la persona (o Sé) come totalità unitaria, sintesi delle sue identificazioni, del suo autoinvestimento narcisistico, della sua molteplicità problematica e instabile, permette di stare nel gruppo recependo elementi percepiti come necessari nello scambio sociale o utili all’arricchimento delle proprie possibilità soggettive. Ciò accade con sospensioni temporanee e anche non complete della propria individualità, ma soprattutto con una continua possibilità di osmosi con l’ambiente, vale a dire con la possibilità sia di contaminazioni, che possono esitare in casi estremi di potenza e pressione in una sorta di atmosfera condizionante, sia di una rigenerazione ininterrotta, come di norma accade. La reversibilità, la scelta di evoluzioni che mantengano il proprio senza perdere possibilità di miglioramento che si ottengono assorbendo o rilasciando l’altro, fa parte delle chance dell’individuo e della fortuna e della stabilizzazione del gruppo.
Una funzione particolare viene svolta dall’apparato sensoriale e dal linguaggio come sistema simbolico operante con mezzi non verbali e verbali, che risultano entrambi in diverso modo fondanti sul piano sociologico la soggettivazione: lo stimolo ambientale, quale può essere il modo di vestire e la moda, la propriocezione del corpo nel contatto con gli abiti, gli altri corpi e gli elementi naturali, nell’impatto con lo sguardo e il desiderio proprio e altrui, nell’ascolto della lingua e nella percezione delle sensazioni fonematiche. In parallelo si trascorre impercettibilmente e diversamente, sul piano psicoanalitico, nelle scelte soggettive, come nel caso della sessuazione e quindi della scelta di genere, della propria auto-definizione come soggetto, con tutta la fugacità del suo essere.
Vi è forse la possibilità di non dover rinunciare a godere per tenere la pace, se usciamo dalla riduzione della portata dell’inconscio alla contrapposizione edipica fra desiderio e tabù come unico significante sociale, nonché dalle condizioni che validano la fondazione paolina della radice del desiderio nella trasgressione della legge, e fanno coincidere/collidere senza vie d’uscita le ragioni e le condizioni del desiderio e della legge. Dovremmo assumere, in altre parole, la visione in cui la macchina desiderante rifonda su altre basi il mondo, e fa coesistere senza deflagrazioni periodiche il desiderio di libertà e il desiderio di sottomissione, stemperandone la potenza di enunciazione in risultati che superano le limitazioni d’orizzonte e le contraddizioni di partenza.